Oriana Fallaci, Maurizio Landini e il 7 ottobre 2025

Sono passati due anni esatti dagli attentati che il 7 ottobre 2023 hanno colpito Israele, lasciando una scia di sangue e terrore difficile da dimenticare. Il mondo si è fermato, l’Europa ha osservato, spesso con il fiato corto e il coraggio dimezzato. Ma mentre la diplomazia ufficiale arrancava, la pace è arrivata, o almeno un fragile accordo, grazie ad un attore inaspettato: Donald Trump. È stato lui, con una mediazione silenziosa, ma decisa, a riportare le parti a un tavolo, spiazzando analisti e benpensanti. Una pace concreta, non imposta dalle piazze o dai proclami, ma costruita con la forza della realtà. E, intanto, in Italia, ci si è persi tra le macerie di una protesta senza visione. Mentre a Doha si firmavano accordi, qui si lanciavano slogan e sassi. Le vetrine rotte nelle città italiane non hanno fermato alcuna guerra, ma hanno messo a dura prova la convivenza civile. La cosiddetta “Flottilla della pace”, i cortei antagonisti, e le dichiarazioni infiammate di Maurizio Landini hanno aggiunto rumore, ma non soluzioni ed invece di costruire ponti, si sono alzati muri. E a questo punto vale la pena ricordarlo chiaramente che il compito di un sindacato è quello di tutelare i lavoratori, difendere i diritti, migliorare le condizioni nei luoghi di lavoro e non trasformarsi in un partito mascherato, pronto a sindacare ogni mossa del Governo come se fosse un’opposizione politica alternativa. Un sindacato “vero” non si schiera nei giochi di potere, ma resta accanto ai lavoratori, senza agende ideologiche e senza incitare alla ribellione sociale fine a sé stessa. Ecco perché, oggi più che mai, le parole che Oriana Fallaci scrisse su Panorama il 18 aprile 2002 suonano come un colpo alla coscienza collettiva. Parole che parlavano di libertà, di indifferenza e di pericoli che si annidano nel silenzio colpevole delle società democratiche. Allora molti le giudicarono estreme, ma oggi, a distanza di oltre vent’anni, si rivelano semplicemente lucide. Fallaci non si limitava a commentare, ma avvertiva. Ci chiamava a non ignorare ciò che stava cambiando sotto i nostri occhi. E se oggi l’Italia è attraversata da un senso di smarrimento, da una politica sempre più gridata e da un’informazione polarizzata, è proprio perché troppo spesso si è scelto di non ascoltare. Di ridicolizzare chi invitava alla vigilanza, di confondere la militanza con la rabbia, la protesta con il vandalismo e la critica con il sabotaggio. Oriana Fallaci ci ha lasciato una lezione scomoda, ma fondamentale, che la libertà non si difende con i cortei che devastano le città, né con i sindacati trasformati in tribune ideologiche, ma si difende con la coerenza, il pensiero critico e il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, e senza ambiguità, e senza paura. E se oggi il mondo è un po’ più vicino alla pace, non è merito di chi ha alzato la voce per farsi notare, ma di chi ha avuto la forza di agire in silenzio e con determinazione. Anche questo, in fondo, è un messaggio che la Fallaci avrebbe approvato.


Infernetto (Roma), il quartiere discarica: la vergogna del Campidoglio.

A Roma c’è un quartiere che si sente tradito. Si chiama Infernetto, e oggi vive con l’incubo di diventare il nuovo deposito dei rifiuti domestici della Capitale. Sì, proprio così, il Sindaco Gualtieri e la sua giunta comunale sembrano intenzionati a collocare una discarica di rifiuti urbani in una zona residenziale, abitata da famiglie, bambini e anziani. La vicenda del cantiere Ama di via Ermanno Wolf Ferrari è esplosa come una bomba. Da settimane, l’area è ferma, transennata, ma senza controllo. Secondo diverse fonti, sarebbero stati rinvenuti materiali pericolosi, tra cui, si mormora, perfino amianto. Eppure dal Campidoglio, ancora silenzio. Nessuna nota ufficiale, nessun sopralluogo del sindaco, nessuna spiegazione pubblica ai cittadini che vivono ogni giorno con la paura di respirare sostanze nocive. Il quartiere è in subbuglio. Le famiglie si chiedono come sia possibile che in una zona densamente abitata, già provata da anni di incuria, si possa anche solo ipotizzare di collocare una discarica. E soprattutto, come sia stato possibile lasciare per oltre venti giorni il sito completamente abbandonato, esposto alle piogge, senza alcuna misura di sicurezza. È una fotografia impietosa di un’amministrazione che sembra disinteressarsi della salute pubblica, concentrata più sulle carte che sulle persone. Il gruppo capitolino e municipale di Forza Italia ha alzato la voce, parlando di un comportamento “superficiale ed irresponsabile” da parte del Comune. E annuncia battaglia con una richiesta di convocazione urgente della commissione Trasparenza, un esposto alla Procura della Repubblica, un’interrogazione municipale e una segnalazione alla Asl. L’obiettivo è chiaro dobbiamo capire chi ha deciso cosa, chi ha controllato e, soprattutto, chi non lo ha fatto. Perciò la politica, da sola, non basta. Perché la rabbia dell’Infernetto è reale, profonda e umana. I cittadini sono pronti a scendere in piazza, insieme alle associazioni e ai comitati di quartiere, per difendere il loro diritto a respirare aria pulita, a vivere in sicurezza, a non essere trattati come cittadini di serie B. Il sindaco Gualtieri e l’assessora Alfonsi devono risposte chiare per chi ha autorizzato il progetto della discarica? E quali siano stati i controlli ambientali? Cosa è stato trovato davvero nel terreno del cantiere Ama? E, soprattutto, perché il Comune non ha ancora sospeso i lavori fino a quando non saranno garantite condizioni di piena sicurezza? Roma non può più permettersi questa gestione opaca e distante. Il rispetto per l’ambiente e per le persone non può essere solo uno slogan da campagna elettorale. L’Infernetto merita trasparenza, dignità e tutela. Perché se il degrado diventa la regola e la sicurezza un optional, allora non è più una città, ma è una discarica morale e politica.


Moda in movimento

Analizzarne il fenomeno della moda e la sua evoluzione significa guardare non solo a come sono cambiati gli abiti nel tempo, ma anche a come si sono sviluppati i concetti di stile, identità e comunicazione attraverso ciò che indossiamo. Pertanto questo continuo progredire culturale, riflette i cambiamenti della società, della tecnologia, dei costumi e delle mentalità, sia a livello culturale, sociale ed economico. Nasce nel tardo Medioevo, intorno al XIV secolo, nelle corti europee. In questo periodo, il modo di vestire comincia a essere usato per distinguere classi sociali e ruoli. Le corti di Francia e d’Italia (in particolare Firenze e Venezia) diventano centri di innovazione e tendenza. Nel Rinascimento, la moda diventa espressione del potere e del prestigio delle corti. I tessuti sono ricchi di ricami, elaborati e le forme sontuose riflettono lo status sociale. Nel Barocco (XVII secolo), la teatralità e l’eccesso sono i segni distintivi caratterizzati da pizzi, parrucche, corsetti, gonne ampie che dominano la scena. Nel Settecento c’è la rivoluzione del gusto dove la moda francese regna sovrana. Maria Antonietta è una delle prime “icone di stile” moderne. Ma con la Rivoluzione Francese 1789, si afferma un nuovo ideale di sobrietà e razionalità. I vestiti diventano meno pomposi, più pratici e accessibili. Il XIX secolo è l’epoca dell’industrializzazione e democratizzazione e con la rivoluzione industriale, nascono i primi capi prodotti in serie. Si diffondono le riviste di moda e simbolo di raffinatezza, diventa la sartoria su misura. Charles Frederick Worth è considerato il primo “stilista” della storia, fondatore dell’haute couture a Parigi. Il XX secolo si può considerare il secolo delle rivoluzioni stilistiche, il Novecento della moda come la conosciamo oggi, intesa come un fenomeno ciclico di cambiamento del gusto nel vestire. Analizzando la moda negli anni si possono fare delle distinzioni: anni ‘20 – gli elementi ben riconoscibili: la predilezione per le linee geometriche negli abiti, ma anche nel design e nella grafica, gli accostamenti di colori strong e i contrasti decisi, la nascita dello stile flapper (vestiti corti, capelli a caschetto) gli esordi di Coco Chanel introducono lo stile semplice, elegante e funzionale; anni ‘30 – la moda abbandona le linee dritte degli anni ’20 i per abbracciare silhouette più sinuose e femminili, con una vita segnata da cinture e gonne che si allungano. Elementi come spalline pronunciate, maniche a sbuffo, grandi colletti e scollature profonde nei vestiti da sera definiscono l’estetica dell’epoca, che predilige tessuti leggeri come il raso e lo chiffon e il taglio sbieco per abiti che si adattano al corpo; anni ’40 e ‘50 – subito dopo la guerra, preponderanti i tailleur divisa realizzati in tessuti poveri; gonne dritte al ginocchio; giacche dalle linee squadrate e strette in vita. La fine della guerra portò, soprattutto nella seconda metà del decennio, a un ritorno a materiali più pregiati con la rinascita della moda elegante, ritorna la femminilità, con Christian Dior e il “New Look” e in America cresce l’influenza dello stile casual; anni ‘60 – caratterizzati dalla rivoluzione giovanile, la minigonna di Mary Quant, il pop, il rock. Protagonista indiscusso fu il denim, declinato negli iconici jeans a vita alta, hot pants, smanicati, salopette e camicie. Per un look un po’ più girly, gonne skater e crop top; anni ‘70 – la moda femminile divenne un’espressione di libertà caratterizzata da pantaloni a zampa, gonne lunghe e a balze, colori vivaci, stampe psichedeliche e floreali, e abbigliamento ampio e comodo. Stili iconici includevano il look hippie, con frange e tessuti naturali, i jeans e gli stili etnici; anni ‘80 – eccessi, colori vivaci e forti, spalline imbottite, moda intesa come status symbol, dove prevalgono le grandi firme come Versace, Armani, Moschino e, peraltro, raggiungere gli anni ’90 con il minimalismo di Calvin Klein, grunge, look ribelle e anticonformista, streetwear e glam in epoca di contrasti. Il XXI secolo è il periodo della globalizzazione, sostenibilità e identità. Nel nuovo millennio, la moda è diventata globale, digitale e inclusiva. Le tendenze non nascono più solo dalle passerelle, ma anche dai social media, dagli influencer e dalla cultura urbana. E si iniziano ad usare temi chiave di oggi come la fast fashion contro la slow fashion, la velocità e accessibilità contro la sostenibilità e qualità. La moda genderless con l’abbattimento dei confini tra abbigliamento maschile e femminile. L’inclusività con maggiore attenzione alle taglie, alle etnie e alla disabilità. La tecnologia con la moda digitale, con la realtà aumentata, ed abiti intelligenti. Ed infine con il riciclo e la sostenibilità con attenzione all’ambiente, ai tessuti riciclati e alle produzioni etiche. Perciò la moda è molto più di un semplice abbigliamento e si può considerare lo specchio della Società, con il linguaggio visivo e un mezzo di espressione attraverso il quale l’individuo si riconosce. Da simbolo di potere a strumento di libertà personale, da status quo a scelta consapevole, individuale, autentica e la sua evoluzione racconta la storia dell’umanità stessa.


Il caso Ilaria Salis e il voto di Bruxelles: l’Europa che difende se stessa, ma non i cittadini.

Con un solo voto di scarto, il Parlamento Europeo ha deciso di mantenere l’immunità parlamentare a Ilaria Salis, eurodeputata accusata in Ungheria di gravi reati. Un voto risicato, ma dal peso politico enorme. Ancora una volta, Bruxelles invia un segnale che divide: quello di un’istituzione pronta a difendere la propria struttura più che i principi di giustizia che dice di rappresentare. La decisione arriva in un clima già teso, in cui la fiducia dei cittadini europei verso le istituzioni è ai minimi storici. Eppure, bastano sessanta secondi di votazione per far riaffiorare il sospetto che a prevalere non sia il diritto, ma la politica delle convenienze. Un solo voto, uno soltanto, ha salvato Salis dal rischio di dover rispondere subito davanti ai giudici ungheresi. E quel voto, simbolicamente, pesa come un macigno sull’immagine stessa del Parlamento di Strasburgo. Certo, la questione non è semplice. Il caso Salis è delicato, intrecciato a diritti civili, garanzie processuali e rapporti complicati con il governo Orbán. Tuttavia ciò che lascia l’amaro in bocca è la sensazione che l’immunità sia diventata uno scudo politico, più che una tutela democratica. Una protezione concessa non per difendere un principio, ma per salvare un simbolo utile a certi equilibri di potere. Il Parlamento europeo appare sempre più come un luogo autoreferenziale, dove le decisioni vengono prese lontano dai cittadini, dai loro problemi reali e dalla loro idea di giustizia. Si parla di “Europa dei valori”, ma questi valori sembrano valere solo quando conviene. Peraltro, invece, di dare un segnale di fermezza, di trasparenza e di responsabilità, prevale il calcolo. E la distanza tra Bruxelles e la gente comune cresce ancora di più. Molti in Italia, e non solo, si chiedono cosa resti oggi della sovranità morale di un’Europa che difende se stessa, ma non sempre difende i principi che proclama. La vicenda Salis non è solo un fatto giudiziario, ma un termometro politico e simbolico. Misura quanto le istituzioni europee siano ormai percepite come un sistema chiuso, poco disposto a rendere conto, protetto da privilegi e procedure. Non è un invito all’uscita dall’Unione, ma una richiesta di verità. Di trasparenza, di coerenza e di coraggio. Perché se l’Europa vuole restare credibile, deve saper dimostrare che nessuno, nemmeno un suo rappresentante, è al di sopra della Legge. Altrimenti, a furia di proteggere se stessa, rischia di perdere ciò che la fonda: la fiducia dei cittadini. Forse è arrivato il momento di dirlo con chiarezza che serve un’Europa con la schiena dritta e capace di guardare in faccia i propri errori. Perché un solo voto può salvare un politico, ma può anche condannare un’istituzione intera alla perdita della propria credibilità.


Occhiuto riconfermato in Calabria: tra trionfo politico e riflessione sull’astensione

La Calabria ha scelto la continuità. Con oltre il 57% dei voti, secondo le ultime proiezioni, Roberto Occhiuto si riconferma presidente della Regione, rafforzando la posizione di Forza Italia e dell’intera coalizione di centrodestra. Una vittoria netta, che va oltre le aspettative e che segna un punto fermo nel panorama politico del Sud Italia. Dalle prime ore successive allo spoglio, il clima nel quartier generale di Occhiuto è stato di entusiasmo e gratitudine. I vertici di Forza Italia parlano di un successo costruito “sulla concretezza e sulla vicinanza ai cittadini”. Per il partito fondato da Silvio Berlusconi, il risultato calabrese assume un valore simbolico e politico insieme: conferma la capacità di governare territori complessi con pragmatismo e continuità, in un momento in cui il centrodestra punta a consolidare il proprio radicamento nel Mezzogiorno. “È la vittoria di una Calabria che cresce, che guarda al futuro con fiducia”, ha dichiarato Occhiuto a caldo. “Abbiamo lavorato per risolvere problemi reali, dall’acqua alla sanità, e continueremo a farlo con serietà e senso di responsabilità”. Parole che tracciano la linea per il nuovo mandato: stabilità, infrastrutture, sviluppo e dialogo con le istituzioni nazionali ed europee. Nel campo opposto, il centrosinistra riconosce il verdetto delle urne ma apre una riflessione profonda. “Il risultato di Occhiuto è chiaro e va rispettato,” affermano alcuni esponenti del Partito Democratico, “ma non possiamo ignorare il dato dell’astensione.” L’affluenza, ancora una volta bassa, conferma una distanza crescente tra cittadini e politica. È su questo terreno, dicono, che l’opposizione dovrà ricostruire la propria credibilità, puntando su proposte concrete e su un linguaggio più vicino alle persone. Il tema dell’unità del centrosinistra torna così al centro del dibattito. Le divisioni interne, la difficoltà nel presentare un fronte coeso e una leadership riconosciuta hanno pesato in maniera evidente sulla campagna elettorale. Alcuni osservatori sottolineano come la Calabria, regione spesso laboratorio politico, abbia invece ribadito l’importanza del radicamento territoriale e della presenza costante tra la gente, elementi che hanno favorito la riconferma del governatore uscente. Sul piano nazionale, la vittoria di Occhiuto viene letta come un segnale positivo per il centrodestra, che rafforza la propria posizione nelle regioni meridionali e può rivendicare la stabilità dei propri amministratori locali. Forza Italia, in particolare, esce da questa tornata elettorale con un rinnovato slancio: un segnale incoraggiante in vista dei prossimi appuntamenti politici, a partire dalle europee. La Calabria, dunque, resta terreno di confronto ma anche di speranza. Dietro i numeri e le percentuali, resta la sfida più grande: trasformare la fiducia degli elettori in risultati concreti, mantenendo fede alle promesse di sviluppo, lavoro e servizi. Perché, al di là dei colori politici, ciò che i calabresi chiedono è semplice: una regione che funzioni, che ascolti e che finalmente cresca.


Quando l’odio traveste il pacifismo, il caso di Maria Elena Delia e l’ipocrisia del rispetto selettivo.

C’è un limite oltre il quale il dissenso smette di essere voce critica e diventa veleno. Quando l’odio si traveste da libertà di espressione e si fa passare per coraggio civile, la democrazia stessa si indebolisce. Il caso di Maria Elena Delia, portavoce italiana della Global Sumud Flotilla, è un esempio lampante di questa deriva. Secondo quanto riportato da un noto quotidiano italiano, la Delia avrebbe pubblicato, e poi cancellato, un post su Facebook in cui, il 14 giugno di due anni fa, scriveva che sarebbe scesa in strada “con champagne, trombetta e coriandoli” per festeggiare la morte di Silvio Berlusconi. Parole che non hanno bisogno di interpretazioni: un’esultanza macabra, offensiva e, soprattutto, incompatibile con l’immagine di chi oggi si presenta come voce della pace e della solidarietà internazionale. Dietro la retorica del pacifismo “militante” si nasconde spesso un moralismo a senso unico, pronto a giudicare tutto e tutti, ma incapace di riconoscere i propri limiti. Perché il pacifismo vero non è ideologia: è empatia, misura e rispetto. Non può convivere con la gioia per la morte di un uomo e di qualunque uomo. Il direttore editoriale Gino Zavalani, di Esperia, ha riportato alla luce quelle parole cancellate. Non per alimentare polemiche, ma per ricordare che la memoria digitale non dimentica. E che cancellare un post non equivale a cancellare una responsabilità morale, ma la vicenda, già controversa, ora si arricchisce di un nuovo capitolo. Maria Elena Delia passa alla contromossa. Dopo l’esposto in Procura presentato dall’Istituto Milton Friedman, che ipotizza presunti legami tra Hamas e la Flotilla, la portavoce italiana ha replicato con un nuovo esposto, denunciando a sua volta presunte violazioni dei diritti fondamentali. Secondo la sua versione, gli attivisti della Flotilla “sono stati detenuti illegalmente senza alcuna base giuridica, prelevati dalla marina militare israeliana senza che avessero commesso alcun reato. Sono stati sequestrati, non arrestati, perché l’arresto presuppone un’ipotesi di reato. In questa prigione sono stati negati i diritti basilari di difesa e la fornitura di beni e servizi fondamentali, acqua, cibo, accesso ai servizi igienici”. Un contrattacco che apre un nuovo fronte giudiziario e mediatico, ma, anche qui, il nodo resta lo stesso con la coerenza tra parole e azioni. Chi si propone come simbolo di pace e libertà non può permettersi leggerezze verbali che celebrano la morte di un avversario politico, né può giocare a fare la vittima dopo aver alimentato un clima d’odio. Silvio Berlusconi, con tutti i suoi meriti e difetti, ha rappresentato un pezzo di storia italiana. E la morte, se non altro, impone rispetto. Quello che oggi manca in un dibattito pubblico, sempre più polarizzato, dove l’empatia è vista come debolezza e l’insulto come segno di coraggio. Alla signora Delia, dunque, un invito semplice e civile, e prima di parlare di pace, impari il linguaggio del rispetto. Prima di denunciare le ingiustizie del mondo, riconosca le proprie. Perché la pace non si predica, ma si pratica anche e soprattutto nelle parole.