Lo stadio in crisi d’identità. Lo svuotamento della curva interista per commemorare un capo ultras trucidato in un agguato stile Al Capone nei giorni scorsi è un segnale: lì comandano le tifoserie. Zone grigie della società dove sono permesse attività e atteggiamenti fuori dal decoro. Sono tanti gli abitanti di questo mondo, come dimostrano le scenografie di massa di cui sono esperti, come dimostra lo svuotamento degli spalti. Quest’ultima esibizione dalla polvere del colosseo cittadino ha un significato per loro, ma non solo: le inchieste dimostreranno solo quanto già si sa, cioè che il tifo organizzato lo è in tanti sensi. Ciò che invece emerge è che il resto dei milanesi non hanno espresso pareri: quella è Milano? La città che fa un inchino così vistoso a un uomo dalla vita turbolenta? Potrebbe essere. In fondo il tema non è quale sia l’anima migliore di Milano, ma quale sia ancora viva. Perché una città non può andare avanti solo con i bilanci, perché per logica matematica ogni calcolo complesso tende all’eliminazione della parte umana dell’attività. Una città senza persone sarebbe ordinatissima e pulitissima, per capirci. E allora l’importante non è se qualcuno ha costretto ad andarsene chi è andato a vedere una partita di calcio, ma il senso che ha quel palco e i messaggi che manda. Il Colosseo era il centro della vita pubblica tanto quanto il Senato, dunque non si tratta di indici volumetrici quando si parla di San Siro, ma di idee. Lo stadio in crisi d’identità non fa bene a nessuno, meglio una sbagliata o contestabile, ma che sia chiara e distinta come un principio cartesiano. Anche perché una soluzione per tenere fuori gli ultras (oggi oggetto della maggior parte delle critiche) è costruire un nuovo stadio con meno posti a costi più alti e un’ottima security. Però in tanti dove vedrebbero la partita? Dove si tasterebbe il polso a una città senza un stadio dove le frange periferiche della popolazione possono esprimersi?