Il diritto all’oblio è il diritto di ciascuno ad essere “dimenticato” e si concretizza mediante la rimozione di tutti i link ed i riferimenti che rimandano ad un contenuto online ritenuto lesivo.
Di tale diritto può parlarsi quando sia venuta meno l’attualità della notizia, quando l’esposizione dei fatti non sia commisurata all’esigenza informativa o risulti lesiva della dignità dell’interessato o quando la notizia – pur inizialmente diffusa nel rispetto delle condizioni poste al diritto di cronaca – sia stata ripubblicata a distanza di tempo con modalità lesive senza che la stessa sia tornata di interesse pubblico.
Il diritto all’oblio è divenuto fondamentale soprattutto per Internet e per i siti d’informazione, poiché gli archivi digitali, indicizzati dai motori di ricerca, sono molto più facili da consultare rispetto a quelli cartacei e rimangono perennemente accessibili.
La rete annulla la distanza temporale tra una pubblicazione e la successiva, ospitando notizie anche risalenti, spesso superate dagli eventi e quindi non più attuali. Ciò fa sì che quando si cercano informazioni su una persona si possa rapidamente arrivare a vecchi articoli nei quali si raccontano fatti di cronaca che potrebbero essere oggi ritenuti sconvenienti dal soggetto interessato.
Accogliendo un ricorso presentato dalla Spagna, nel 2014 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che i cittadini europei hanno il diritto di richiedere che alcune informazioni siano rimosse se queste sono “non adatte, irrilevanti o non più rilevanti”.
La nota sentenza “Google Spain” del 13/05/2014 di fatto ha stimolato il Legislatore europeo ad elevare al rango di norma comunitaria il diritto all’oblio. È stato, infatti, stabilito che i diritti dell’interessato derivati dagli articoli 7 e 8 della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE (rispettivamente “Rispetto della vita privata e della vita familiare” e “Protezione dei dati di carattere personale”) “prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona”.
I giudici hanno sancito che se cercando qualcosa sul proprio conto su internet si trovi un contenuto segnalato nella pagina dei risultati che si ritenga non rilevante, deve essere possibile chiederne la “deindicizzazione”, ovvero la rimozione dalla lista dei risultati forniti. Se il motore di ricerca non rispetta la richiesta, il cittadino ha il diritto di presentare ricorso presso le autorità competenti per avviare un procedimento giudiziario.
In buona sostanza, se un soggetto trova una notizia su Google che rimanda a un vecchio caso di cronaca che lo ha coinvolto, può chiedere al motore di ricerca che quel contenuto non compaia più nella pagina dei risultati quando qualcuno cerca il suo nome (l’articolo non sarà cancellato dal sito che lo ha pubblicato, ma semplicemente nessuno potrà arrivarci attraverso il motore di ricerca).
Google ha il dovere di esaminare la richiesta (e molte volte la stessa viene accettata; da tempo infatti al fondo dei risultati è possibile trovare una nota che segnala che alcune pagine potrebbero essere state rimosse dalla lista).
Dal 2014 ad oggi, sempre più rilevante è stato il ricorso a questo rimedio per garantire il “diritto al ridimensionamento della propria visibilità mediatica” (negli ultimi cinque anni, Google ha ricevuto oltre 850mila distinte richieste di deindicizzazione, che hanno interessato link verso 3,3 milioni di siti).
La società decide volta per volta in autonomia, cercando di rispettare le indicazioni della Corte e affrontando le numerose cause intentate da chi si è visto rifiutare la richiesta di rimozione. Se, infatti, Google ritiene che l’interesse pubblico per l’articolo superi l’interesse del singolo che vorrebbe invece farlo rimuovere, può anche rifiutare la richiesta. Il singolo può quindi chiedere a un giudice terzo di occuparsene.
La mole di richieste ha confermato i timori di molti osservatori sul rischio che le regole indicate dalla Corte sul diritto all’oblio online potessero essere utilizzate in modo arbitrario per chiedere la rimozione di contenuti limitando la libertà di stampa e il diritto di cronaca.
Quando Google rifiuta una richiesta di deindicizzazione, avviene spesso che gli interessati si mettano in contatto con i gestori dei siti chiedendo che provvedano loro a escludere i contenuti dai motori di ricerca. In mancanza di un quadro normativo chiaro e con la prospettiva di dover sostenere spese legali, spesso i siti accolgono le richieste, limitando la loro funzione informativa e di fatto autocensurandosi.
E proprio questo aspetto è stato sviluppato dalla Corte di Giustizia, con alcune implicazioni particolarmente rilevanti per la cronaca giudiziaria.
Il profilo della persona, stilato dal motore di ricerca organizzando le notizie indicizzate, deve secondo la Corte rifletterne la condizione (anche giudiziaria) attuale, rimuovendo quindi i link ad articoli non aggiornati all’evoluzione processuale, ogniqualvolta l’impatto negativo sull’identità sia sproporzionato rispetto all’esigenza di agevole reperibilità della notizia. Così, anche qualora non si debba deindicizzare, le informazioni restituite dal motore di ricerca dovranno essere visualizzate in modo da riflettere la posizione giudiziaria attuale della persona. La notizia dell’assoluzione non deve, ad esempio, essere posta in coda a una pluralità di link più risalenti, relativi all’imputazione, alle misure cautelari, persino alla condanna non definitiva. Dev’essere, insomma, il criterio dell’esattezza e dell’aggiornamento a governare l’algoritmo dei motori di ricerca.
Il diritto all’oblio è stato disciplinato anche dall’art. 17 del GDPR (Regolamento Generale sulla protezione dei dati personali, operativo per tutti gli Stati UE a partire dal 25 maggio 2018), che ha introdotto espressamente il “diritto alla cancellazione (<diritto all’oblio>)”.
L’ambito di operatività della deindicizzazione è stato recentemente limitato dalla Corte di Giustizia alle sole pagine europee dei motori di ricerca.
La sentenza del 24/09/2019, pronunciata in esito alla causa C-507/17 “Google LLC Vs CNIL”, ha infatti stabilito che il gestore di un motore di ricerca, quando accoglie una domanda di deindicizzazione in applicazione dell’art. 17 del GDPR “è tenuto ad effettuare tale deindicizzazione non in tutte le versioni del suo motore di ricerca, ma nelle versioni di tale motore corrispondenti a tutti gli Stati membri […] con misure che […] permettano effettivamente di impedire agli utenti di Internet, che effettuano una ricerca sulla base del nome dell’interessato a partire da uno degli Stati membri, di avere accesso, attraverso l’elenco dei risultati visualizzato in seguito a tale ricerca, ai link oggetto di tale domanda”.
Google non dovrà applicare il diritto all’oblio su scala globale: non sarà obbligato a rimuovere i link ai contenuti fuori dall’Unione europea. La decisione della Corte farà sì che i contenuti che in Europa sono considerati “dimenticabili” potranno essere in ogni caso visibili nei risultati di ricerca di Google all’esterno dell’Unione.