30 aprile 1993. Facci ha scritto un libro sulla giornata dell’assedio e del linciaggio delle monetine contro Craxi all’Hotel Raphael, in Largo Febo a Roma. L’autore ne parla come L’ultimo giorno di una Repubblica, parere già espresso negli ultimi venti anni. Definisce poi il 30 aprile anche il giorno de la fine della politica, introducendo, con visione profetica retrodatata, tutti i suoi successivi sostituti, dai fax ai post ai meet up, ai video fatti in casa per youtube, agli odi di masse isolate davanti ai non partecipati talk, agli insulti ed aggressioni sempre bullistici, sia fisici che virtuali, fondati sul non razionale vaffa.
La presa d’atto pubblica della violenza da pogrom insita in quel 30 aprile, rea confessa nelle parole di chi ha ancora il rimpianto di non aver ucciso quel giorno il Cinghialone, secondo l’espressione usata all’epoca dai Feltri, è oggi possibile, dato un nuovo clima nazionale. Lo dimostra il consenso per i libri pubblicati da Zurlo e Sallusti sulla magistratura, che ne inchiodano tic, difetti e spaventose contraddizioni ed illegalità su cui media e rete martellano da mesi. Lo dimostra la resa al gigantesco potere dei trend economici e delle trasformazioni da questi indotte; la scarsa considerazione per le aggregazioni politiche e la speranza in gerarchie forti. Lo dimostrano l’arresto di Battisti e la richiesta d’estradizione dei brigatisti francesi. L’asse mediano si è spostato visibilmente a destra e non solo perché i partiti di destra tout court hanno già il sostegno, da soli, di metà del paese. Soprattutto perché anche la sinistra ha sposato ideali di destra, e più aristocratica, dei primi. Non potrebbe che essere di destra per rimanere fazione di regime in un mondo di destra.
Si sa che per alcuni la rivoluzione russa nasce nel 1905, per altri nel 1917. La fine della politica può essere il 30 aprile oppure il 28 marzo dell’anno dopo della vittoria elettorale, esemplificato nel Fede su Rete4 di Berlusconi ha vinto contro tutto e contro tutti. Al contrario del ’92 quando il metodo proporzionale premiò, anche sotto la grandine giudiziaria, i vecchi partiti, nel ’94 si usò un maggioritario corretto dall’attuale inquilino del Quirinale, con vittoria misurata per coalizioni coatte; un passo verso il modello della Rinascita di Gelli, cui si inchinò anche Mattarella. L’avere evocato l’attuazione di una Rinascita aveva in altri tempi dannato Craxi (e successivamente dannerà D’Alema). La fine della politica fu la damnatio fisica di Bettino oppure la vittoria di Berlusconi oppure la fine del proporzionale?
O fu il 29 aprile 1993, giorno del voto sulle autorizzazioni a procedere per giudizio e perquisizione per corruzione e ricettazione contro il leader socialista, accettate dalla Giunta senza un fiato (il cui presidente Vairo al momento buono si diede malato). Coincidenza vuole che fosse lo stesso giorno della condanna a Previti per il Lodo Mondadori (dove si difendeva Repubblica dalle grinfie di Arcore. Nei media le donne nelle vesti delle contesse Vacca ed Ariosto venivano esibite nella loro dignità di divertissement dei potenti). L’Aula si accasciò sotto tre pagine fitte nella trascrizione ufficiale di reato e di concorso, reiterate negli stessi estremi, ripetuti senza requie, per un lunghissimo elenco penale di responsabilità concentrate negli appalti dell’universo mondo; ma alla fine l’Aula negò 4 autorizzazioni su 6.
Occhetto, Rutelli, Ayala fecero subito indignati una conferenza stampa, rimandando al comizio di Piazza Navona del giorno dopo, dove ebbero l’intuizione di paragonare il voto parlamentare agli omicidi mafiosi. L’indignazione fra i partecipanti era a mille, con grande soddisfazione di D’Alema in giro per la piazza, proprio come quando osserva il suo ministro Speranza. Armati di tante parole, in migliaia si lanciarono nel budello di Largo Febo ad attendere Craxi sotto casa sua per colpirlo con ogni oggetto possibile ma soprattutto con circa 2500 pezzi da 100 e 500 lire, vere munizioni che fecero sangue. Un anno di propaganda, arresti, intimidazioni, falsificazioni era giunto al suo culmine; ma era un concentrato recente che bolliva da più di un decennio. Berlinguer aveva dannato Craxi ed i giudici, come l’Inquisizione, cercavano confessioni a riguardo.
Fu Berlinguer come Sansone a non ammettere l’esistenza della politica senza il Pci? O furono i tre porcellini seguaci, Occhetto, Rutelli, Ayala? Oppure si è rivelato vero il postulato Frigerio secondo i magistrati i governi degli anni ’60 e la cultura consociativa avevano diffuso pratiche illecite? Quest’ultima condanna del centrosinistra appare una foto dell’oggi. Il tempo lascia tutto dietro di sé. Ha fatto dimenticare Natali, Dini, Larini, Querci, Radaelli, Zaffra, Milani, Manzi, Troielli, Chiesa. L’on. Pinza che ottenne il voto favorevole a Craxi, Vereni che lo voleva morto. Feltri, Bontempo, Rondolino che lo odiarono e cambiarono opinione. La Meloni, lanciatrice, un po’ meno. Passa il Mixer di Minoli, non le giornaliste di Rai3. Spariti Occhetto, Ayala, Fede; non Rutelli che l’ha odiato, ma cui la parodia guzzantiana ha onesso perdono. A torto. Ligresti non c’è più.
La splendida, graffiante ed epigrammatica penna di Facci si esercita abitualmente sul vasto ventaglio delle nuove parole d’ordine; e lui le distrugge tutte senza pietà sia che si tratti di clima, di gattini che del debito. E’ probabilmente il retaggio dell’esordio giornalistico quando seguiva le cronache giudiziarie di Mani Pulite da appestato, come cronista dell’Avanti, il giornale dei ladri; lui che era più radicale che socialista. All’epoca Zurlo, cronista per l’Europeo degli antefatti della Milano da bere, era fra quelli che lo schifavano. Quando tratta di Craxi, Facci diventa meno tagliente e più autobiografico. Racconta in larga parte quel che vide ed ascoltò, perché è quasi sempre, un autore che è anche attore presente, un confessore di particolari realistici, un ingenuo gaffeur che descrive presenze terze, contraddizioni e confusioni che venivano e vengono in mente. Facci rifiuterebbe d’essere etichettato come giornalista di destra, anche se i giornali che lo ospitano lo sono. Si limita a scrivere pezzi antiregime.
Zurlo e Sallusti sono diversamente morbidi. Elencano fatti, date, cifre come vengono loro raccontate o come si deducono dalle relazioni ufficiali emendate e già sbanchettate. Non affondano con teorie, ricostruzioni, analogie che accusino gli istituti in oggetto di intenzionale malversazione. E’ l’abitudine di destra di esercitare un catenaccio stretto che non offra il verso ai rabbiosi e inconsulti colpi di coda della belva populista. Abitudine fattasi metodo in decenni di continua aggressione giudiziaria; e che va a scemare con millimetrica lentezza man mano che si palesa la più grande contraddizione tra un paese sempre più di destra ed il crescente dissenso per l’istituzione più destra che ci sia, la magistratura.
Facci nei suoi corpo a corpo con il Fotto quotidiano è come Sansonetti che da vecchio comunista quando colpisce, dà reiterati colpi mortali alla coratella, oggi affibbiati ai vecchi amici di ieri. Invece il nostro autore, se il tema ruota attorno a Craxi, si avvicina sognante alla guardinga precauzione di Zurlo e Sallusti.
Giuseppe Mele