MM, il Comune e quel demansionamento che fa giurisprudenza. Alla ripresa dei lavori del Comune, con la prospettiva di un diverso assetto della gestione delle acque, è importante ricordare che il Comune ha a che fare con degli esseri umani. Sia dal lato del servizio offerto, che da quello dei propri lavoratori. Ci si attenderebbe che dopo dieci anni di amministrazione di sinistra, le partite aperte dai lavoratori che lamentano danni gravi arrecati dal management delle partecipate siano chiusi rapidamente nel rispetto del diritto del lavoro. Macché. Questa storia, che è finita con una pronuncia della Corte di Cassazione (31558 del 4 novembre 2021) in favore del lavoratore, ormai in pensione, di MM Franco Vassallo, si è trascinata per quasi diciassette anni. E con dieci anni di processo che hanno attraversato due consiliature di sinistra. Non c’è che dire, un grande risultato per la sinistra del lavoro. Di cosa si parla? Di demansionamento. Di un lavoratore umiliato nella propria professionalità. Ma facciamo parlare la Suprema Corte
“Occorre premettere, in fatto, che l’esistenza del demansionamento è stata accertata dai giudici di merito in relazione una ricostruzione puntuale dei compiti affidati ai dipendente – il quale inizialmente aveva svolto mansioni di Capo Reparto Pronto Intervento e di Capo Reparto Unità Mobile Controllo Rete, laddove, a far tempo dall’ottobre 2005, era stato assegnato all’area acque reflue – con la descrizione dettagliata delle mansioni svolte nei diversi periodi; era stato al riguardo precisato che all’espletamento di un ruolo di elevato contenuto professionale connesso alla responsabilità di una serie di unità (di ricerca perdite, di manutenzione) e al coordinamento di un elevato numero di dipendenti, aveva fatto seguito l’assegnazione di mansioni di tecnico di zona con limitazione delle competenze alle problematiche attinenti alla fognatura relative alla zona a lui riservata, con evidente mortificazione della dignità professionale del lavoratore.
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L’assegnazione a mansioni inferiori rappresenta poi, fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Innanzi tutto l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (vedi Cass. 10/6/2004 n. 11045 ).
Invero la violazione dell’art. 2103 c.c., può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è di certo bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro. Inoltre la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti.
Queste parole, molto pacate, descrivono diciassette anni di dolore, umiliazione e perdita di futuro. Di cui, va ripetuto, dieci di processo. Senza che MM riconoscesse il proprio errore. E senza che, sugli anni successivi al 2013, decidesse di sedersi a un tavolo, costringendo Franco Vassallo ad un altro ricorso. Tu chiamali, se vuoi, compagni.