La Milano di Expo si schianta sul virus. Non è un modo di dire, ma quello che è successo: se c’è tanta ansia nel capoluogo lombardo è perché il corona virus ha messo in ginocchio uno storytelling e uno story doing che ci portiamo dietro da dieci anni. Milano è stata la città del lavoro, poi le fabbriche del Novecento hanno chiuso col loro carico di tumori e terreni compromessi, lasciando la città senza identità.Identità che è tornata con grande carica grazie a Expo 2015, un evento mondiale pompato da tutto il sistema Paese. Persino le critiche di chi vedeva limiti nel modello di futuro riassumibile in clienti e camerieri furono tacitate come anti progressiste.
Milano ha ripreso in pieno la sua vitalità, scoprendo che a trecentomila operai si erano sostituiti trecentomila studenti. Nuova linfa per le casse pubbliche, nuove energie da incanalare in eventi sempre più mondiale e alla moda. Musica, cibo, una sorta di perenne sagra di paese o festa del santo patrono ma in versione chic. Ma ecco la vera apoteosi: il virus così facile da diffondere che rischia seriamente di mettere a dura prova il sistema sanitario. Lo stesso sindaco Giuseppe Sala, promotore della nuova Milano da Bere, ha dovuto chiedere ai milanesi di ridurre la vita sociale. State in case, pare l’ordine generale. Regione Lombardia ha spinto perché si chiudessero i bar in anticipo e moltissimi uffici calano le serrande.
Ecco dunque che la Milano di Expo si schianta sul virus: la città della vitalità, unica per altro di una nazione perennemente depressa, si deve fermare. Non è la peste bubbonica, ma a livello psicologico è un dramma sociale per Milano che forse potrebbe cambiare il modo di raccontarsi e di viversi. Da città del mattone e dello sballo a città della cura, forse solo un sogno che svanirà passata l’emergenza. Forse.
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