Quell’imprenditore diventato imputato senza colpa. Qualche considerazione accademica. Il povero imprenditore che è indebitato, per fattori esterni, e non per la cattiva gestione dell’impresa, diventa anche un imputato. L’imprenditore fallito un tempo era colpito da una sanzione sociale che talora lo portava al suicidio. Questa sanzione era di fatto trasfusa nel sistema sanzionatorio fallimentare perché laddove fosse intervenuta, a seguito del fallimento, una condanna per uno dei reati di bancarotta, era prevista la grave misura consistente nel divieto di esercitare una attività imprenditoriale per almeno dieci anni. Per fortuna una recente sentenza della Corte Cost. (n.222/18) ha eliminato questo aberrante automatismo, ma è certo che comunque, il fallito, oltre alla condanna penale, sarà escluso dal mondo imprenditoriale, per un certo lasso di tempo, inferiore, per fortuna, al rigido termine decennale. Con il passare del tempo, le persone più avvedute hanno dovuto constatare che il fallimento comporta, in primo luogo, la perdita di numerosi posti di lavoro con un costo sociale assai maggiore del giudizio di disvalore che colpiva l’imprenditore fallito. Inoltre la sua cessazione, per effetto del fallimento, sarebbe stata repentina ed avrebbe vanificato anni ed anni di lavoro ed enorme fatica, premiando, invece abili speculatori che sarebbero intervenuti acquistando a prezzi ridicoli, le entità economicamente apprezzabili dell’impresa fallita. Da ciò la precisa scelta della legislazione in materia che ha inteso valorizzare, sotto un penetrante controllo giudiziario, la continuità aziendale, nel rispetto delle aspettative dei creditori e della economicità della gestione aziendale.
Quanto queste aspettative si siano concretamente avverate è un dilemma difficile da risolvere, perché una rapida e concisa panoramica di quanto è successo negli ultimi anni non convince affatto che siano rotti i ponti con quanto succedeva in passato, Ad esempio non possiamo dimenticare che nel Tribunale della capitale era stata posta in essere questa straordinaria procedura: se fosse stato presente un attivo patrimoniale, che tuttavia avrebbe dovuto avere una specifica destinazione, apparivano tardivamente creditori inesistenti che poi erano pagati consumando in toto l’attivo medesimo. Un altro caso nel distretto pratese, nell’imprenditoria legata alla produzione dei tessuti: un gruppo nel lontano 2010 è entrato in crisi finanziaria, perché un grosso credito vantato nei confronti di un imprenditore russo non veniva onorato. Fu tentata con successo una procedura di concordato in continuità, l’affitto delle attività commerciali ad altri imprenditori che però pagarono il canone i primi tempi, ma poi niente. Vista la situazione determinatasi, non per colpa dell’imprenditore, costui si è determinato a richiedere il fallimento in proprio onde evitare un maggior danno alla massa. Senonché dopo alcuni anni, e per iniziativa di soggetto diverso dagli organi della procedura, è stato scoperto che l’animatore del gruppo pratese era un abile finanziere già passato dalla galera. E’ impensabile che queste “qualità” soggettive non fossero conoscibili da parte degli organi della procedura, sempreché avessero inteso svolgere con un minimo di diligenza il loro incarico. Inoltre il Commissario del concordato e poi il Curatore del fallimento niente hanno fatto di concreto per escutere il debitore russo insolvente, sebbene la Russia abbia organi giurisdizionali e uffici pubblici ben strutturati. A quanto pare la giurisprudenza pratese tollera queste gravi anomalie e ciò desta ancora molta preoccupazione. Forse le nostre sono solo considerazioni accademiche, come dicevamo all’inizio, ma il mondo reale subisce danni reali da queste incongruenze.