Nome dell'autore: Michelangelo Bonessa

Giornalista per inclinazione allo scrivere e al non essere allineato, direttore editoriale dell'Osservatore Meneghino per le mille e imperscrutabili vie della vita. Ho scritto per Narcomafie, Corriere, Giornale, Fattoquotidiano, LaPrealpina, Stile, 2duerighe.com, MilanoPost, l'Esagono e molti altri.

Statue e donne: una questione irrisolta

Statue e donne: una questione irrisolta. In questi giorni a Milano si sta discutendo molto di una statua raffigurante una donna. E fin qui potrebbe anche non essere un tema difficile, diciamo non difficilissimo. C’è un però: quella è una mamma. E da questo particolare si è scatenato il putiferio. Perché a questo punto secondo il Comune di Milano è diventata “divisiva”. Non sorprende perché da anni Palazzo Marino è impegnata a chiudere asili e scuole pubbliche e a stendere piste ciclabili che secondo i magistrati sarebbero pure irregolari nonché causa di morti e feriti sulle strade. Segno che l’interesse per gli asili nido e dunque per madri (e padri) è secondario, almeno stando alla mole di investimenti riservati ai capitoli di bilancio che in mondo normale sarebbero chiamati semplicemente “necessità dei cittadini”. Però piace invece parlare di bilanci. Perché il bilancio di per sè è asettico. Se dal bilancio togli i bambini e i disabili, per dire, i conti tornano in attivo perché quelle sono figure in perdita. Tant’è che la figura della madre in sé è osteggiata da tutti, molte donne comprese. Perché alla fine una madre è un elemento in perdita del sistema economico. Crea vita, dunque costi. Invece se si dedica solo al lavoro crea denaro da spendere in mille e una attività. Così resta attiva con la sua bicicletta a girare su e giù per le vie alla moda delle città in cui gli chef di alta cucina ormai idoli delle folle impediscono ai bambini di entrare nei loro ristoranti prima di una certa età, perché i bambini sono un elemento di disturbo. Così come le madri e i padri. Gente piena di esigenze tipo uno stato sociale e senza voglia di rincorrere lo status sociale. Così sulle statue e donne è una questione irrisolta a Milano. Persino l’idea di mettere una statua che raffigura una madre di fronte alla clinica Mangiagalli, tempio della natalità meneghina, sarebbe un insulto perché ci sono donne che interrompono la gravidanza. Secondo questo schema di pensiero dovremmo bruciare arazzi e scalpellare per qualche anno perché nell’arte stranamente secondo i wokisti è pieno di riferimenti a gente (persino divinità) a cui la vita piaceva. In cui le persone non erano un mero elemento del sistema economico. In cui gli esseri umani potevano essere tali senza dover contare su uno stipendio. Ma questo ovviamente è il passato. Nel presente le madri sono un simbolo divisivo. Qualcosa da nascondere. Magari in una grotta. Oppure più semplicemente da evitare. Così non si offende nessuno.

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Palazzo Marino: profumo di woke nell’aria

Voci di corridoio ci avevano riferito che, dopo lo scontro avvenuto in commissione, la Consigliera del PD Alice Arienta, si fosse chiarita con il Capogruppo di Forza Italia Alessandro De Chirico e avesse deciso di mettere una pietra sopra la questione. Il aula però l’impressione è stata che in realtà la volesse mettere sopra all’azzurro e a buona parte del genere maschile. Presa la parola la Consigliera del PD ha esordito ricordando di essere stata vittima insieme a una collega “di un attacco violento e aggressivo di stampo machista”.  Aggettivo quest’ultimo, che non ha nulla a che fare con il comportamento di De Chirico e che non testimonia certo a favore, se non della comprensione, almeno della mancata accettazione di quanto scritto nella lettera inviata dall’azzurro. Ha quindi proseguito ringraziando tutti quelli che le hanno manifestato solidarietà e vicinanza, spiegando poi di avere riflettuto su “come lanciare un messaggio contro l’odio e contro il linguaggio sessista” ribadendo implicitamente di non avere accettato la versione di De Chirico secondo cui il suo non era un attacco di stampo misogino, per poi trasformare questo singolo episodio in una rivendicazione di genere “si perché quello che è successo non è un fatto personale accaduta a me ma una vera violenza che in passato ad altre donne”. Dimenticandosi però di precisare che in alcuni casi le offese alle “altre donne” provenissero proprio da altre donne. “Nessuno può arrogarsi il diritto di zittire qualcuno” ha aggiunto la Arienta “tanto meno con modalità aggressive se rivolte ad una donna” (Se rivolte a un uomo si? Che ne è stato della parità di genere?) per poi rivolgersi a tutte le donne “Noi non possiamo più accettare di venire zittite, mai!” ribadendo che nessuno può zittire nessuno “ma a una donna è ancora più antipatico” (come sopra) sottolineando poi che “zittire è un tentativo di ricondurre la donna in un angolo così non nuoce visto che magari sta dicendo cose che magari infastidiscono”. E su questo “infastidiscono” ci soffermiamo un attimo, perché è evidente che l’Arienta ha capito benissimo che De Chirico fosse infastidito, non il perché. Non perché lei è donna, non per il ruolo che ricopre e nemmeno perché stava parlando, bensì per il fatto che lo stesse criticando per un comportamento tenuto anche da lei in passato. Cosa che si è ben guardata di dire. E’ l’ipocrisia che lo ha infastidito, non il sesso della sua interlocutrice. La consigliera del PD ha quindi fatto una condivisibile critica ai toni che a volte si usano in aula, creando un “ambiente tossico così che poi non si riesca più a discutere, a elaborare un pensiero a fare proposte” dicendosi quindi d’accordo con la Presidente Buscemi sul costituire una “Commissione sul Linguaggio d’Odio” per rendere le discussioni più gentili e “delicate”. La Consigliera ha quindi annunciato di avere organizzato un flah mob fuori da Palazzo Marino contro il linguaggio sessista e la violenza cui – purtroppo – probabilmente, viste le premesse, hanno partecipato solo esponenti di sinistra. In conclusione, Alice Arienta ci è sembrata sincera e realmente provata dall’accaduto. Ci sarebbe piaciuta di più se non avesse trasformato una disputa personale, in cui ha avuto una parte di responsabilità facendo la morale a De Chirico per un’azione compiuta anche da lei in precedenza, in una rivendicazione di genere dal sapore decisamente woke. Rivendicazione più che lecita, se corrisponde al suo pensiero, ma che avremmo trovato più credibile e adeguata se distaccata da questo singolo episodio con cui il sessismo, a nostro parere, non ha nulla a che fare.

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Buche: Milano 1 Roma 0

Milano, la città della moda, del design e… delle buche? Sì, avete letto bene. La metropoli lombarda sta vivendo una vera e propria “invasione” di crateri stradali, tanto da far impallidire la Città Eterna. “Buche: Milano 1 Roma 0” potrebbe essere il risultato di questa inaspettata competizione, dove il campo di gioco è l’asfalto cittadino. La situazione è talmente seria che le strade di Milano sono state descritte come “distrutte”, con oltre 500 buche segnalate in soli sette giorni. Un ritmo quasi industriale di scavo, che supera abbondantemente le tre buche l’ora​​. Il maltempo recente ha solo aggravato una situazione già critica, lasciando gli automobilisti e i motociclisti a navigare in un pericoloso labirinto di voragini​​. La reazione politica non si è fatta attendere, con l’opposizione che punta il dito contro l’amministrazione comunale per la mancanza di manutenzione ordinaria e l’utilizzo di materiali scadenti​​. Il sindaco Sala, da parte sua, ha assicurato che il Comune sta lavorando per affrontare l’emergenza, chiedendo un “piano di battaglia” contro le buche​​. Nel frattempo, la Lega ha già annunciato un esposto in Procura per denunciare lo stato di degrado del manto stradale, richiedendo anche un consiglio comunale straordinario​​. Questo scenario lascia i milanesi in una situazione paradossale: da una parte, l’orgoglio per una città all’avanguardia e dinamica; dall’altra, la frustrazione per strade che sembrano tratti di un percorso ad ostacoli. E mentre gli automobilisti contano i danni ai loro mezzi, i cittadini si chiedono: Milano sarà davvero riuscita a superare Roma nel triste primato delle buche? Se la risposta fosse affermativa, sarebbe una vittoria di Pirro, di quelle che non si festeggiano. In attesa di soluzioni concrete, si moltiplicano le segnalazioni e le proteste, mentre la città attende che le promesse di intervento si traducano in azioni efficaci. Nel frattempo, possiamo solo augurare ai milanesi buona fortuna e ammortizzatori robusti, nella speranza che questo “campionato” delle buche possa presto concludersi con un risultato favorevole per tutti i cittadini.

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Fratelli d’Italia: urne piene e poltrone vuote

L’ottimo risultato ottenuto da Forza Italia – partito dato per morto da più parti – alle Regionali in Abruzzo, evidenzia la sostanziale differenza con Fratelli d’Italia: il primo ha perso un leader,  ma conservato la classe dirigente, il secondo ha trovato una leader, ma non riesce a costruirsi la classe dirigente. Condizione che costringe i meloniani a cercare ancora candidati e quadri quasi esclusivamente fra le limitate risorse umane di cui disponeva prima di raggiungere il successo, mentre gli azzurri hanno  uomini e donne sufficienti sia per gestire il partito, sia per farsi trovare pronti a ogni tornata elettorale. Evidentemente, lo slogan “Siamo pronti!” sarebbe stato meglio declinato in un “Sono pronta!”. Perché? Per vari motivi. Partendo dal fatto che i pochi che hanno contribuito a portare il partito fuori dal guado faticano a fidarsi dei nuovi arrivati e tendono a relegarli in ruoli di secondo piano. Vi è poi il vezzo poco conservatore, ma molto conservativo per cui chi ha ottenuto posizioni di rilievo vuole mantenerle a ogni costo impedendo la crescita di chi gli sta alle spalle. Senza dimenticare i clan famigliari, più o meno allargati, che fanno incetta di posizioni per parenti e amici o quanti eletti in più istituzioni che mantengono i doppi incarichi (contro la volontà della stessa Meloni) impedendo di fare esperienza a quelli che li sostituirebbero se si dimettessero da uno di questi. Se Giorgia Meloni non riuscirà a dare una svolta a questa situazione la prospettiva cui si trova davanti Fratelli d’Italia è un paradossale “urne piene e poltrone vuote”  con la conseguente necessità di riempirle con “peones” o con esponenti di altri partiti andando a erodere, spostandolo ad altri, il consenso elettorale fin qui ottenuto. Un esempio su tutti, che poi è quello che interessa chi legge questo giornale, il prossimo candidato sindaco di Milano, per il quale i meloniani non sono capaci di proporre nessun loro esponente, se non andando a pescare improbabili nomi fuori dal partito, con il rischio che ottengano lo stesso disastroso risultato di Parisi e Bernardo, mentre Forza Italia, Lega e persino Noi Moderati sono in grado di produrre un lungo elenco di candidati di bandiera.

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Una partita giocata fuori campo

Una partita giocata fuori campo. Nella Milano che si proietta verso il futuro con la stessa velocità con cui corre sui binari della sua nuova Metropolitana 4, si apre un nuovo atto che ha tutto il sapore di una commedia all’italiana, ma con risvolti che paiono tratti da un dramma shakespeariano. Al centro della scena, lo storico Stadio di San Siro, o Giuseppe Meazza per i puristi, e un’idea che solleva più di un sopracciglio: venderlo alle squadre del Milan e dell’Inter, con l’accordo che ne sostengano i costi di ristrutturazione. Il Sindaco Giuseppe Sala, regista di questa manovra, sembra aver calato il sipario su ogni remora, proponendo un affare che a molti suonerebbe come una resa piuttosto che come una trattativa. In cambio, le gloriosi squadre meneghine dovrebbero rinnovare l’arena a proprie spese, promessa che risuona come un eco nelle vuote stanze delle casse comunali. Ma la trama si infittisce quando entra in scena Webuild, lo stesso colosso che ha costruito a linea M4 della metropolitana. L’offerta di progettare il nuovo stadio sembra una mossa logica, un passo naturale per una società che ha già dimostrato di poter trasformare la visione in realtà. Tuttavia, non si può fare a meno di chiedersi: siamo davvero di fronte a un’opera di puro mecenatismo aziendale, o c’è sotto qualcosa di più? La questione si complica se si considera che lo stadio, oltre a essere un luogo dove si giocano partite di calcio, è anche un pezzo di storia milanese, un punto di riferimento affettivo per molti cittadini e un bene pubblico di inestimabile valore sociale. La sua cessione sembra quasi un regalo, un lascito generoso a due entità private che, per quanto legate indissolubilmente alla città, operano secondo logiche di profitto. Non ci vuole un critico d’arte per notare le ombre in questo quadro. Si potrebbe quasi parlare di una sorta di “baratto culturale”, in cui la memoria e l’identità di una città vengono scambiate con la promessa di un rinnovamento architettonico e funzionale. Ma a quale prezzo? E per chi? Queste domande non sono retoriche, ma piuttosto il tentativo di penetrare la nebbia di un affare che sembra troppo bello per essere vero. In una città che ha sempre saputo rinnovarsi, preservando gelosamente il proprio patrimonio storico e culturale, la vicenda dello stadio di San Siro sembra un’anomalia, un pezzo del puzzle che non trova la sua collocazione. Milano merita trasparenza, così come i suoi cittadini, che guardano a San Siro non solo come a un tempio del calcio, ma anche come a un simbolo della loro città. È quindi legittimo chiedersi se, in questo intreccio di affari e interessi, non si stia perdendo di vista l’essenza stessa di ciò che rende un bene pubblico tale: la sua appartenenza alla comunità e il suo valore inestimabile che trascende il mero calcolo economico. In conclusione, la partita per il futuro di San Siro è ancora tutta da giocare, e come in ogni buon incontro che si rispetti, sarà il campo – in questo caso, quello dell’etica e della trasparenza – a decidere il vincitore. Resta da vedere se i tifosi di questa città saranno semplici

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