Nome dell'autore: Michelangelo Bonessa

Giornalista per inclinazione allo scrivere e al non essere allineato, direttore editoriale dell'Osservatore Meneghino per le mille e imperscrutabili vie della vita. Ho scritto per Narcomafie, Corriere, Giornale, Fattoquotidiano, LaPrealpina, Stile, 2duerighe.com, MilanoPost, l'Esagono e molti altri.

Buche: Milano 1 Roma 0

Milano, la città della moda, del design e… delle buche? Sì, avete letto bene. La metropoli lombarda sta vivendo una vera e propria “invasione” di crateri stradali, tanto da far impallidire la Città Eterna. “Buche: Milano 1 Roma 0” potrebbe essere il risultato di questa inaspettata competizione, dove il campo di gioco è l’asfalto cittadino. La situazione è talmente seria che le strade di Milano sono state descritte come “distrutte”, con oltre 500 buche segnalate in soli sette giorni. Un ritmo quasi industriale di scavo, che supera abbondantemente le tre buche l’ora​​. Il maltempo recente ha solo aggravato una situazione già critica, lasciando gli automobilisti e i motociclisti a navigare in un pericoloso labirinto di voragini​​. La reazione politica non si è fatta attendere, con l’opposizione che punta il dito contro l’amministrazione comunale per la mancanza di manutenzione ordinaria e l’utilizzo di materiali scadenti​​. Il sindaco Sala, da parte sua, ha assicurato che il Comune sta lavorando per affrontare l’emergenza, chiedendo un “piano di battaglia” contro le buche​​. Nel frattempo, la Lega ha già annunciato un esposto in Procura per denunciare lo stato di degrado del manto stradale, richiedendo anche un consiglio comunale straordinario​​. Questo scenario lascia i milanesi in una situazione paradossale: da una parte, l’orgoglio per una città all’avanguardia e dinamica; dall’altra, la frustrazione per strade che sembrano tratti di un percorso ad ostacoli. E mentre gli automobilisti contano i danni ai loro mezzi, i cittadini si chiedono: Milano sarà davvero riuscita a superare Roma nel triste primato delle buche? Se la risposta fosse affermativa, sarebbe una vittoria di Pirro, di quelle che non si festeggiano. In attesa di soluzioni concrete, si moltiplicano le segnalazioni e le proteste, mentre la città attende che le promesse di intervento si traducano in azioni efficaci. Nel frattempo, possiamo solo augurare ai milanesi buona fortuna e ammortizzatori robusti, nella speranza che questo “campionato” delle buche possa presto concludersi con un risultato favorevole per tutti i cittadini.

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Fratelli d’Italia: urne piene e poltrone vuote

L’ottimo risultato ottenuto da Forza Italia – partito dato per morto da più parti – alle Regionali in Abruzzo, evidenzia la sostanziale differenza con Fratelli d’Italia: il primo ha perso un leader,  ma conservato la classe dirigente, il secondo ha trovato una leader, ma non riesce a costruirsi la classe dirigente. Condizione che costringe i meloniani a cercare ancora candidati e quadri quasi esclusivamente fra le limitate risorse umane di cui disponeva prima di raggiungere il successo, mentre gli azzurri hanno  uomini e donne sufficienti sia per gestire il partito, sia per farsi trovare pronti a ogni tornata elettorale. Evidentemente, lo slogan “Siamo pronti!” sarebbe stato meglio declinato in un “Sono pronta!”. Perché? Per vari motivi. Partendo dal fatto che i pochi che hanno contribuito a portare il partito fuori dal guado faticano a fidarsi dei nuovi arrivati e tendono a relegarli in ruoli di secondo piano. Vi è poi il vezzo poco conservatore, ma molto conservativo per cui chi ha ottenuto posizioni di rilievo vuole mantenerle a ogni costo impedendo la crescita di chi gli sta alle spalle. Senza dimenticare i clan famigliari, più o meno allargati, che fanno incetta di posizioni per parenti e amici o quanti eletti in più istituzioni che mantengono i doppi incarichi (contro la volontà della stessa Meloni) impedendo di fare esperienza a quelli che li sostituirebbero se si dimettessero da uno di questi. Se Giorgia Meloni non riuscirà a dare una svolta a questa situazione la prospettiva cui si trova davanti Fratelli d’Italia è un paradossale “urne piene e poltrone vuote”  con la conseguente necessità di riempirle con “peones” o con esponenti di altri partiti andando a erodere, spostandolo ad altri, il consenso elettorale fin qui ottenuto. Un esempio su tutti, che poi è quello che interessa chi legge questo giornale, il prossimo candidato sindaco di Milano, per il quale i meloniani non sono capaci di proporre nessun loro esponente, se non andando a pescare improbabili nomi fuori dal partito, con il rischio che ottengano lo stesso disastroso risultato di Parisi e Bernardo, mentre Forza Italia, Lega e persino Noi Moderati sono in grado di produrre un lungo elenco di candidati di bandiera.

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Una partita giocata fuori campo

Una partita giocata fuori campo. Nella Milano che si proietta verso il futuro con la stessa velocità con cui corre sui binari della sua nuova Metropolitana 4, si apre un nuovo atto che ha tutto il sapore di una commedia all’italiana, ma con risvolti che paiono tratti da un dramma shakespeariano. Al centro della scena, lo storico Stadio di San Siro, o Giuseppe Meazza per i puristi, e un’idea che solleva più di un sopracciglio: venderlo alle squadre del Milan e dell’Inter, con l’accordo che ne sostengano i costi di ristrutturazione. Il Sindaco Giuseppe Sala, regista di questa manovra, sembra aver calato il sipario su ogni remora, proponendo un affare che a molti suonerebbe come una resa piuttosto che come una trattativa. In cambio, le gloriosi squadre meneghine dovrebbero rinnovare l’arena a proprie spese, promessa che risuona come un eco nelle vuote stanze delle casse comunali. Ma la trama si infittisce quando entra in scena Webuild, lo stesso colosso che ha costruito a linea M4 della metropolitana. L’offerta di progettare il nuovo stadio sembra una mossa logica, un passo naturale per una società che ha già dimostrato di poter trasformare la visione in realtà. Tuttavia, non si può fare a meno di chiedersi: siamo davvero di fronte a un’opera di puro mecenatismo aziendale, o c’è sotto qualcosa di più? La questione si complica se si considera che lo stadio, oltre a essere un luogo dove si giocano partite di calcio, è anche un pezzo di storia milanese, un punto di riferimento affettivo per molti cittadini e un bene pubblico di inestimabile valore sociale. La sua cessione sembra quasi un regalo, un lascito generoso a due entità private che, per quanto legate indissolubilmente alla città, operano secondo logiche di profitto. Non ci vuole un critico d’arte per notare le ombre in questo quadro. Si potrebbe quasi parlare di una sorta di “baratto culturale”, in cui la memoria e l’identità di una città vengono scambiate con la promessa di un rinnovamento architettonico e funzionale. Ma a quale prezzo? E per chi? Queste domande non sono retoriche, ma piuttosto il tentativo di penetrare la nebbia di un affare che sembra troppo bello per essere vero. In una città che ha sempre saputo rinnovarsi, preservando gelosamente il proprio patrimonio storico e culturale, la vicenda dello stadio di San Siro sembra un’anomalia, un pezzo del puzzle che non trova la sua collocazione. Milano merita trasparenza, così come i suoi cittadini, che guardano a San Siro non solo come a un tempio del calcio, ma anche come a un simbolo della loro città. È quindi legittimo chiedersi se, in questo intreccio di affari e interessi, non si stia perdendo di vista l’essenza stessa di ciò che rende un bene pubblico tale: la sua appartenenza alla comunità e il suo valore inestimabile che trascende il mero calcolo economico. In conclusione, la partita per il futuro di San Siro è ancora tutta da giocare, e come in ogni buon incontro che si rispetti, sarà il campo – in questo caso, quello dell’etica e della trasparenza – a decidere il vincitore. Resta da vedere se i tifosi di questa città saranno semplici

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Via Padova: ha ragione Sardone o i commercianti?

Via Padova: ha ragione Sardone o i commercianti? In questi giorni è tornata alla ribalta la questione via Padova. Da sempre è una delle vie di Milano di cui si denuncia il degrado e l’ultimo intervento della Lega ha riaperto il tema: Silvia Sardone, notissimo volto leghista su Milano, ha organizzato la presentazione di un libro e il suo partito una fiaccolata per chiedere più sicurezza per via Padova. Durante la serata un altro corteo ha cercato di marciare verso i leghisti con lo scopo di bloccare la presentazione del libro e contestare la manifestazione. Perché secondo alcuni continuare a parlare di via Padova come di un luogo di degrado e insicurezza è ingiusto e sbagliato. Ingiusto perché negli anni la situazione sarebbe molto migliorata in generale dal punto di vista della sicurezza (anche se nessuno nega che ci siano dei problemi), sbagliato perché se si continua il racconto negativo sulla via non si farà altro che tenerla ai margini dello sviluppo cittadino. E infatti va ammesso che non erano tanti i commercianti aderenti alla manifestazione della Lega o alla presentazione del libro di Sardone. Invece erano più numerosi i contestatori. Forse solo una questione di organizzazione, forse i leghisti soffrono del calo degli iscritti registrato su Milano e provincia negli ultimi anni. Ma il dato numerico dell’altra sera è innegabile. E allora su resta il dubbio su via Padova: ha ragione Sardone o i commercianti? Perché alcuni di loro sostengono che non servano gli appelli a più sicurezza e controlli, ma sarebbe più utile invece iniziare a lavorare in positivo sulla via. Creare uno storytelling positivo come si usa dire nel presente. Il dubbio resta aperto e potrebbe essere un’idea creare un evento pubblico in cui discutere seriamente del tema, sia con chi la pensa in modo che con chi la pensa in un altro. Così sicuramente via Padova non avrebbe nulla da perdere e in fondo la questione importante dovrebbe essere proprio il destino di questa parte di città, non del singolo personaggio che ne parla.

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Crisi di nervi in Comune

Crisi di nervi in Comune. Repubblica, ormai sempre più house organ di Palazzo Marino, ci informa che per i dipendenti del settore Edilizia del Comune di Milano è stato attivato il supporto psicologico. Due ore di debriefing emotivo per sopportare lo stress della polizia giudiziaria che quasi quotidianamente chiede carte e conto del lavoro svolto. Ma non solo i dipendenti comunali sarebbero stressati dal “più alto grado di attenzione che i dipendenti devono impiegare nel controllo delle pratiche”. Pensa tu: e i milanesi che erano convinti che si facesse molta attenzione anche prima del rischio manette, perché essere dipendente pubblico non vuol dire godere di diritti più ampi dei lavoratori privati, ma avere anche la responsabilità della collettività. Perché se si autorizzano palazzi alla belino di segugio succede qualcosa alla vita delle persone, ma visto che pare non sia stata messa troppa attenzione prima l’Osservatore ha deciso di metterci del suo e piano piano sono partite le visure camerali sui 140 dipendenti spaventatissimi. Così da poter fugare ogni dubbio sulla correttezza del loro operato. Perché non è giusto sospettarli di aver facilitato certe pratiche edilizie solo perché viene facile pensare male delle persone. Specialmente se sono persone che hanno sempre fatto il proprio lavoro onestamente: infatti risulta che abbiano obbedito alle direttive dei dirigenti come l’attuale assessore alla Rigenerazione urbana Tancredi. Certo si può obiettare che aver obbedito agli ordini era la difesa di Eichmann, ma sarebbe un paragone ingiusto. Infatti è Tancredi che continua ad andare in Procura a parlare con il procuratore Marcello Viola, con un metodo che se applicato a Palermo o nel sud Italia verrebbe subito visto molto molto male, inutile negarlo. Ma la crisi di nervi in Comune tocca tutti i gradi della macchina comunale. E forse è presto per parlare di una nuova tangentopoli, forse. Quello nel caso lo decideranno i giudici. Magari con una mano visto che politici come Alessandro de Chirico di Forza Italia hanno chiesto la lista dei 150 progetti citati da Sala come aggredibili dalla Procura (per altro oggi Repubblica dice che potrebbero essere di più). Oggi però sarebbe il caso di continuare a dibattere di come si deve costruire a Milano. La città è solo terreno fertile per chi è sposato con le banche e può speculare creando case per pochi? O possiamo tornare a essere una città aperta per tutti? In cui ci sono case per viverci, non per tenere fuori i poveri?

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