Nome dell'autore: Deborah Giovanati

Classe 1983. Cremonese di nascita. Laureata in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Milano in diritto costituzionale. Ha lavorato per la pratica forense in studi legali di diritto civile e amministrativo, ha avuto un incarico al Comune di Cesano Maderno per il presidio dei temi di carattere legale e nell'ufficio legale e gare/appalti di una importante società lombarda. Sposata e mamma di tre bambini, ora é Assessore Educazione, Istruzione,

In ricordo di Don Antonio Anastasio

“In una piccola casa nel cuore della città, c’è un giardino nascosto che nessuno si può immaginare […] Devi dirmi dov’è questa casa dei fiori: è da sempre che cerco la casa dove posso tornare”. (Canzone del Melograno di Claudio Chieffo). Milano, Largo Rapallo n. 5, Parrocchia di San Carlo alla Cà Granda. Questo è l’indirizzo di “una piccola casa nel cuore della città” che ha portato una vera e propria esperienza di vita nuova all’interno del quartiere popolare di Niguarda. La Chiesa, circondata dalle case di edilizia residenziale pubblica, è stata letteralmente presa in mano dai missionari della Fraternità San Carlo. Sacerdoti missionari la cui vocazione è ispirata dal carisma di Don Luigi Giussani. A Milano sono arrivati nel 2013, dopo che la parrocchia era stata chiusa in via precauzionale a causa delle continue minacce da parte di chi svolgeva attività illegale e spaccio di droga nei giardini davanti alla chiesa. Una situazione molto difficile. I nuovi sacerdoti hanno riaperto tutto, accogliendo le famiglie e i bambini del quartiere anche tramite le tante attività proposte dall’oratorio, dall’aiuto allo studio, al catechismo, alla messa della domenica, all’aiuto alimentare per le tante persone anziane e bisognose. Spesse volte si pensa che i territori di missione siano luoghi lontani invece la nostra Italia, la nostra Milano, il mio quartiere sono terra di missione. Ma missione di cosa? Loro la riassumono così: “Passione per la gloria di Cristo”. La prova della malattia del Covid non li ha risparmiati. Tutti i sacerdoti si sono ammalati insieme e Don Antonio Anastasio (Anas per gli amici) il 9 marzo scorso ha salutato questa terra, dopo più di due mesi di lotta, ricoverato in terapia intensiva all’Ospedale di Niguarda. Don Antonio faceva il cappellano alla Bovisa nella sede distaccata del Politecnico di Milano. “I giovani sono stati la sua passione. Rivelare Cristo ai giovani è stato l’anelito continuo della sua vita” Queste sono le parole del Vescovo di Reggio Emilia Massimo Camisasca, fondatore della fraternità San Carlo, al funerale celebrato nella Basilica di Sant’Ambrogio. In questi mesi in cui abbiamo accompagnato Anas nella sua prova, dice Camisasca, “Abbiamo chiesto un miracolo e un miracolo c’è stato: quello di tante persone radunate via internet per pregare assieme ogni sera, segno di un affetto straordinario e della fede implorante di un popolo intero.” Infatti, ogni sera migliaia di persone collegate da tutto il mondo si trovavano alle 21 per la recita del Rosario. Don Jacques, parroco della Chiesa di San Carlo, scrive così sul loro bollettino parrocchiale “San Carlino”: “Cari amici, in queste poche righe voglio esprimere il mio ringraziamento – e di tutti noi preti della San Carlo – per questi mesi vissuti insieme con la recita quotidiana del Santo Rosario. La preghiera condivisa e la compagnia che ci avete fatto non si esaurisce, dura per l’eternità seppur in modalità differenti”. Ho incontrato una “casa dei fiori” che profuma di speranza, soprattutto in questo momento in cui la morte si è fatta compagna e il mondo tenta di negare il più grande annuncio della storia: quello cristiano dell’eternità. Un annuncio a cui ci si può non credere, ma che non può lasciare indifferenti, quindi vi invito a venire a conoscere questa casa nel quartiere a Niguarda, ne vale la pena.

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L’ascolto prima di tutto: la politica deve fare di più per le persone con disabilità

L’ascolto prima di tutto: la politica deve fare di più per le persone con disabilità. Ogni società dovrebbe misurarsi sulla propria capacità di aiutare le persone più deboli, di sentirsi partecipe alle fatiche che quotidianamente queste persone affrontano. La persona con disabilità, persona unica e irripetibile nella sua eguale e inviolabile dignità, richiede alla società cura, riconoscimento, rispetto e integrazione: dalla nascita all’adolescenza, fino all’età adulta e al momento delicato, vissuto con agitazione da tanti genitori, del distacco dai propri figli, il momento del “dopo di noi”. La disabilità non è soltanto bisogno, è anche e soprattutto stimolo e sollecitazione. Certo, essa è domanda di aiuto, ma è prima ancora provocazione nei confronti degli egoismi individuali e collettivi, mettendo in crisi le concezioni della vita legate soltanto all’appagamento, all’apparire, alla fretta, all’efficienza. Quanti hanno responsabilità politiche a tutti i livelli, e quindi la pongo anzitutto come questione a me stessa, dovrebbero sempre operare affinché siano assicurate condizioni di vita e opportunità tali per cui la dignità delle persone con disabilità sia effettivamente riconosciuta e tutelata. In una società ricca di conoscenze scientifiche e tecniche, è possibile e doveroso fare di più, nei vari modi che la convivenza civile richiede: dalla ricerca, alla cura, all’assistenza, alla riabilitazione, all’integrazione sociale che tenga conto della visione integrale della persona umana. Ho quindi posto alcune domande a Elisabetta Sosso, mamma di un ragazzo disabile che frequenta un Centro Diurno Disabili, per disabili gravi e gravissimi, in convenzione con il Comune di Milano e Presidente del coordinamento genitori centri diurni disabili milanesi. Questa intervista vuole essere uno stimolo per tutti a fare di più. Un anno dall’inizio della Pandemia, cosa è stato per te quest’anno? Come sei riuscita ad affrontare questa “nuova” situazione?  Quest’anno è stato faticosissimo per tutta la famiglia: trovarsi rinchiusi in casa, per 5 mesi, a partire da marzo 2020 il CDD di Giovanni è stato chiuso; ha messo alla prova tutte le nostre risorse, sia fisiche che psicologiche. Siamo stati lasciati completamente soli, qualche video chiamata dagli educatori, più che altro con me, perché Giovanni non ne vuole sapere di rapportarsi con questa modalità. Niente aiuti “domiciliari” e una paura grandissima di contagiarci a vicenda….assolutamente inconcepibile e impensabile, per me, che Giovanni finisse in ospedale da solo!! Lui è un uomo (33 anni) tranquillo, fin troppo, và stimolato ad interagire altrimenti si chiude in sé stesso: ecco è successo proprio questo! A distanza di un anno dall’inizio della pandemia, siamo riusciti ad andare avanti mettendo in campo tutte le nostre risorse familiari e amicali, ma non con l’aiuto di chi aveva in carico Giovanni nei servizi comunali, perché bloccati in una posizione “prudenziale” e non di presa in carico reale. Quali sono i servizi indispensabili per una persona con disabilità medio-grave per affrontare la propria quotidianità? Quali sono state le maggiori criticità affrontate dalle famiglie? Esistono dei servizi LEA, cioè servizi che sono Livelli Essenziali di Assistenza, che devono occuparsi in modalità continuativa di persone con disabilità e che non potrebbero essere sospesi, ma con la pandemia lo Stato ha deciso di chiuderli ugualmente per 5 mesi. Parlo di CDD centri diurni disabili, servizi socio sanitari per persone disabili gravi e gravissimi aperti dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 16, tutto l’anno tranne tre settimane circa ad Agosto. Viene fatto un progetto individuale per ogni ospite che prevede attività ed obbiettivi mirati al mantenimento delle abilità acquisite. Durante quest’anno la maggior criticità è stata quella di avere in carico 24 ore su 24 i propri cari disabili, senza poter avere aiuti da chi li aveva in carico (CDD e altri servizi), o da chi prestava il servizio direttamente al domicilio. Siamo rimasti soli e nessuno se ne è accorto: il nostro Sindaco ha ricordato le difficoltà di molti ad andare avanti e non ha mai nominato né i disabili, né le loro famiglie. Come genitori vi siete sentiti coinvolti nelle scelte che la politica ha fatto e sta facendo per i vostri figli? Quali richieste avete avanzato? Purtroppo è sempre una lotta cercare di farsi coinvolgere nelle scelte che la politica, sia locale che nazionale fa; le forme di rappresentanza delle famiglie, l’associazionismo familiare si sta staccando dalla base, preferendo scelte politiche a scelte più culturali e legate al difficile quotidiano delle persone con disabilità e delle loro famiglie. Solo le famiglie sanno cosa è il bene dei loro cari, perché si scontrano tutti i giorni con ostacoli legati a burocrazia e superficialità di chi gestisce i servizi. Stanno cambiando i tempi, le famiglie vogliono autoregolarsi nel gestire la vita dei loro familiari. Le richieste che abbiamo fatto durante quest’anno sono state per chiedere che i nostri figli potessero non perdere tutte le abilità acquisite durante la loro crescita e che potessero continuare ad avere una vita semi-sociale e non stare rinchiusi tutto il giorno con mamma e papà. Nel caso di mio figlio, gli è stato ridotto il numero di giorni di presenza al CDD, invece di tutta la settimana 3 /4 giorni soltanto, e soprattutto  hanno tolto tutte le attività esterne che tanto gli piacevano ( piscina, atletica, ippoterapia..), così un CDD diventa un parcheggio per disabili non un centro educativo. Abbiamo chiesto che il trattamento all’interno dei 40 centri fosse omogeneo per orario ed attività, in modo da venire incontro davvero alle esigenze primarie delle persone con disabilità e delle loro famiglie. Siamo ancora fermi nelle trattative con il Comune che demanda, ad ATS e quindi a Regione Lombardia, le modalità di apertura e gestione dei centri. Tema vaccini. Gli operatori dei centri diurni disabili sono stati vaccinati. Che cosa state chiedendo a chi sta facendo i piani vaccinali? Gli operatori sono stati vaccinati quasi tutti, per quanto riguarda le persone con disabilità, tutto tace; dopo tante promesse fatte da Arcuri, parliamo dei primi di gennaio, riguardo a vaccinazione dei disabili e dei loro accompagnatori ( genitori e/o caregiver), dopo mail mandate all’ assessore alla sanità Locatelli della Regione Lombardia, a Letizia Moratti Assessore al Welfare, senza aver ottenuto risposta, abbiamo capito che altre categorie stanno precedendo

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Festa delle donne, ma cosa dobbiamo festeggiare?

Festa delle donne, ma cosa dobbiamo festeggiare? Quando rifletto sulle battaglie per le donne, per le mamme, per chi si occupa di lavoro e cura dei propri famigliari non posso non pensare a Carolina Pellegrini, che con competenza e passione ha dedicato la sua vita ad aiutare gli altri e le altre. Libera professionista nell’ambito della formazione e del lavoro, affronta ogni giorno sul campo le problematiche quotidiane delle donne. Nessuna battaglia ideologica, tanta concretezza. La festa delle donne è alle porte, ma che cosa dobbiamo festeggiare? Ne ho parlato con Carolina e spero che le sue riflessioni possano veramente avere voce nell’ambito pubblico, perché sarebbe un bene per tutti. L’8 marzo è la festa delle donne, che cosa rappresenta per te questo momento? Non ho mai creduto molto nelle ‘’feste o ricorrenze stabilite dal calendario’’, servono certamente a riporre l’attenzione su un tema, ma non sono risolutive se poi non si lavora sempre. Quest’anno poi purtroppo non c’è nulla da festeggiare se non la straordinaria capacità di molte donne ad aver tenuto insieme tutto. Si parla di donne come una categoria da proteggere, difendere, tutelare, ma i dati recenti emersi sulla perdita del lavoro delle donne ci confermano uno scenario drammatico. Secondo l’Istat, il mese scorso gli occupati sono diminuiti di 101.000 unità, 99.000 sono donne. Che cosa non ha funzionato nelle azioni politiche fino ad ora messe in campo?   Ormai ripeto come un disco rotto che questa pandemia purtroppo ha messo in evidenza come una lente di ingrandimento, problemi già presenti e mai affrontati adeguatamente. La pandemia sta esasperando le diseguaglianze penalizzando chi già era fragile e purtroppo moltissime sono donne. La crisi sanitaria ha colpito maggiormente quei settori dove le donne sono maggiormente impiegate e dove magari avevano creato la loro attività. Il lavoro di cura è aumentato e purtroppo in molti casi ha creato seri problemi di convivenza. Questi numeri molto preoccupanti purtroppo ci fanno pensare ad uno scenario in cui è possibile che un equilibrio già fragile nelle famiglie con un reddito medio/basso, si possa spezzare e questo peserà molto sulla coesione sociale. Cosa non ha funzionato? Le questioni aperte e mai risolte. Siamo stati catapultati all’improvviso in una nuova dimensione quella tecnologica, accelerando processi a cui forse nessuno aveva mai creduto fino in fondo. Lo smart working è stata certamente la salvezza, ma non essendo ‘’rodate’’ per moltissime donne è stato un calvario anche perché in moltissimi casi lo si è confuso con il telelavoro. La pandemia ha inoltre acutizzato, come dicevo prima, problemi presenti in altri ambiti come la condivisione dei carichi di cura, la violenza domestica, l’imprenditoria, la formazione e la povertà. Diciamo che le misure adottate dettate dall’emergenza e quindi non sistemiche, toppano dei buchi ma non risolvono i problemi che nella maggior parte dei casi sono culturali. È culturale per esempio il fatto che l’utilizzo dello smart working non sia mai decollato perché ancora si considera la presenza sul posto di lavoro una garanzia per lo svolgimento dell’attività lavorativa. È culturale il fatto che ancora per più del 70% dei casi il lavoro di cura sia sulle spalle delle donne. È culturale il fatto che le questioni femminili vengano considerate quasi ‘’a parte’’ e non nella loro collocazione complessiva che coinvolge tutti. Ricordo sommessamente che le donne curano le età della vita, tengono insieme relazioni, affetti e toppano, come è stato evidente in questo drammatico periodo, i tanti buchi del welfare Che cosa vuol dire per te “parità di genere”? Perché questa non è una battaglia delle donne, ma dovrebbe riguardare tutti? Parità di genere per me è ribadire la diversità tra uomo e donna e garantire le stesse opportunità ad entrambi. Dovrebbe riguardare tutti perché il benessere degli uomini e delle donne garantisce armonia, equilibrio e fa bene alla coesione sociale. Dove non sono garantite le opportunità per esempio di lavoro per le madri, ne risente innanzitutto l’economia familiare, ma anche il PIL di tutto il Paese. Se fossi a Roma (e secondo me dovresti andarci un giorno per il bene di tutti) e ti trovassi a dover decidere come spendere le risorse dei Recovery Fund per aiutare le donne, che cosa suggeriresti? Il Recovery Fund deve essere visto come un grande investimento per il futuro. Tu investi e se lo fai bene non ti accorgi poi di dover ripagare il debito. Secondo l’UE la sottoccupazione femminile costa 370 miliardi l’anno, cifra legata alla mancata produzione di ricchezza e alla minore quota di gettito fiscale a disposizione dei governi. Oggi più che mai sono necessari investimenti moltiplicatori cioè interventi che affrontino alla radice i problemi, che si ripaghino da sé e generino nel tempo valore economico, sociale e cultuale. Quindi bisogna investire su assi precisi. Asse dell’occupazione. Rilancio dell’occupazione femminile attraverso un abbassamento del costo del lavoro ed incentivi fiscali per favorire l’ingresso. Investirei sulla sensibilizzazione nell’ambito dell’organizzazione del lavoro per ribaltare il paradigma che vede ancora il modello maschile come prevalente. Lavorerei per definire bene le forme di lavoro a distanza sottolineando le differenze tra telelavoro, smart working e lavoro agile in modo da investire sul loro utilizzo regolamentandolo nell’ambito della contrattazione. Investirei sulla digitalizzazione che offre oltretutto molte opportunità a tante donne che vogliono realizzarsi anche come imprenditrici. Investirei sulle aziende che scommettono sul welfare aziendale e credono nelle misure family friendly. Lavorerei sul funding gap femminile che purtroppo impedisce a molte donne di investire su attività autonome. Investirei sulla formazione tecnologica delle donne che hanno dimostrato di avere soft skills decisamente straordinarie ma ancora oggi non accompagnate da solide competenze tecnologiche. Investirei su un vulnus vergognoso che è quello legato alla tutela della maternità alle lavoratrici autonome. Asse della cura, tema cruciale durante la pandemia. Basta bonus, ma rafforzamento delle infrastrutture sociali per la cura della prima infanzia e quella familiare (anziani e non autosufficienti). Le infrastrutture sociali peraltro generano spirale virtuosa occupazionale. Potrei proseguire ma chiudo dicendo che in questo momento il nostro Paese ha proprio bisogno del potenziale produttivo di tutti e di tutte, bisogna investire e sostenere questa capacità produttiva Ultima domanda, perché mi capita spesso di parlarne con le mie

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Darsena, c’era una volta l’assessore alla Sicurezza

Darsena, c’era una volta l’assessore alla Sicurezza, ma c’è mai stato? Tutti i milanesi se lo stanno chiedendo. Ve la presento il suo nome è Anna Scavuzzo, Vicesindaco. Per il Sindaco Sala è stata dal 2016 al 2018 Assessore all’Educazione e poi, con l’elezione al Consiglio Regionale di Carmela Rozza, è stata spostata sulle deleghe di quest’ultima, Sicurezza e Coesione Sociale. Da quel giorno, purtroppo, è caduto un terribile silenzio sulla sicurezza della nostra città. La Vicesindaco Scavuzzo sembra un fantasma. Sul territorio non si è mai fatta vedere. Non è mai andata a riferire sulla sua attività nei municipi o in altri consessi di confronto. La città è diventata terra di nessuno. Le istituzioni non sono visibili, soprattutto nei quartieri più critici. Statue di santi alte due metri abbattute, rave party in centro città, fuochi d’artificio sparati dalle nuove piazze create dall’amministrazione comunale, bivacchi, spaccio di droga, sversamenti abusivi di immondizia…questa ormai è diventata la normalità per Milano. Resta inspiegabile la protezione che gode l’Assessore, perfino il Sindaco fa da suo portavoce, accampando scuse del tipo “non posso essere dappertutto, la città è grande”, quando poi per evitare il Rave in Darsena dell’altra sera forse sarebbero bastate due transenne. Qua non c’entra il Covid, perché l’illegalità non è mai accettabile. Qua si è persa totalmente la partita sul governo del territorio della città I responsabili per il Comune di Milano hanno nome e cognome.

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Il peggior fallimento di Beppe Sala? L’edilizia scolastica

Il peggior fallimento di Beppe Sala? L’edilizia scolastica. Vi ricordate i roboanti annunci del nuovo Assessorato all’Edilizia Scolastica del Comune di Milano? Il Sindaco Beppe Sala, dopo le numerose critiche all’Assessore all’educazione Laura Galimberti, decise alla fine del 2019 di spacchettare le deleghe in due: una parte che si sarebbe dedicata esclusivamente all’istruzione (in particolare fascia 0-6), rimasta a Galimberti, e un nuovo assessorato che si occupasse solamente di edilizia scolastica, affidato a Paolo Limonta, esponente di Milano progressista in Consiglio Comunale. Lo scopo della nuova “poltrona” in giunta? Dare risposte rapide alle tante criticità di edilizia nelle scuole milanesi. Difatti, più del 30% degli edifici scolastici risultano essere obsoleti, oltre ad essere carenti in generale di manutenzione ordinaria, insufficiente rispetto ai reali bisogni. Estate 2020. Anno di Pandemia Covid. Con uno dei (tanti) Dpcm vengono affidati ai Sindaci poteri commissariali in tema di edilizia scolastica per attivare procedure amministrative più semplici, meno complesse, nell’affidamento degli appalti e ridurre così i tempi di esecuzione degli interventi. Il Comune di Milano lancia il suo progetto per le scuole: “Ripartiamo dai tetti”. La Giunta comunale stanzia 14 milioni di euro per risolvere i problemi di infiltrazione di acqua che “causano tanti disagi ai bambini e alle bambine che frequentano le nostre scuole e ai loro genitori e insegnanti”, parole dell’Assessore Limonta. Ci avevo creduto, speravo come amministratrice (e come mamma, non riesco a non immedesimarmi con i genitori di quei bambini) che almeno quest’anno non sarei stata chiamata da mamme e papà allarmati a causa di allagamenti e crolli, chiusure di aule, se non addirittura della scuola intera, scoperti all’arrivo alle 8 del mattino, con bambini già ingrembiulati pronti ad entrare. Il mio sogno è crollato in sei mesi. Ci risiamo. Arriva un messaggio “Assessore ci ascolti, è crollato il controsoffitto, ancora”. Scuola dell’Infanzia comunale di via Monterotondo 10, zona Niguarda. È crollato il controsoffitto. Già ancora, era accaduto anche l’anno precedente. Il 16 dicembre colava acqua dal soffitto, le educatrici dovevano mettere i secchi per evitare di allagare il pavimento. Il Comune era a conoscenza dell’infiltrazione, ma non ha effettuato alcun intervento. Piove, nevica e la sorpresa amara all’apertura. Nessuno che si fosse premurato di fare una verifica. Accidenti era crollato anche l’anno prima, c’erano dei precedenti! Le famiglie si chiedono: “e se fosse accaduto mentre c’erano dentro i nostri figli?”. Oggi (martedì 12 gennaio) i tecnici di MM con l’assessore Limonta e i rappresentanti del Municipio 9 hanno fatto un sopralluogo. Si procederà al ripristino del controsoffitto, con una rete di sicurezza per evitare nuove cadute. Poi i tecnici si dedicheranno alla realizzazione di un progetto per risolvere definitivamente le infiltrazioni. Sembra che, se tutto andasse come dovrebbe andare, i lavori di manutenzione potrebbero iniziare in estate. Speriamo che nessuno faccia la danza della pioggia, perché quel soffitto deve reggere ancora i prossimi mesi invernali e tutta la primavera, e che non sia una trovata elettorale (la campagna è iniziata) per acquietare gli animi di noi genitori. Se solo Sala avesse speso le sue energie per le scuole quanto quelle dedicate alle piste ciclabili, forse non sarei qua a scrivere questo articolo.

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Manifesto sulla Ru486 rimosso: “Furore ideologico contro Pro Vita”

Il Comune di Milano ha fatto rimuovere i manifesti contro l’uso della Ru486 (pillola abortiva) regolarmente affissi da Pro Vita in via Vigoni, angolo Via Mercalli. Non è la prima volta che un manifesto  contrario all’aborto viene fatto rimuovere dai rappresentanti della sinistra italiana. Il cartellone di Pro Vita  voleva provocare una riflessione  sull’assunzione della RU486, la pillola abortiva liberalizzata recentemente anche da Aifa che ha  permesso perfino alle ragazze minorenni di poterla assumere come un banale medicinale da banco, senza dover  informare i genitori o tutori  e senza il controllo medico. Non va confusa con la pillola anticoncenzionale, bensì si tratta di un aborto a tutti gli effetti, subito dalle donne in totale solitudine, sole nell’affrontarne le eventuali conseguenze sia fisiche che psicologiche. Questo è il pensiero dei Pro Vita. E allora perché è stato fatto rimuovere? Quali sono i limiti alla libertà di espressione del pensiero? L’articolo 21, comma 1, della  nostra Costituzione recita espressamente che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. La libertà di espressione è altresì tutelata dall’art. 10 della CEDU  “Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione”. Tale libertà risulta essere il fondamento di ogni paese democratico che si vuole definire tale e difatti si  riconosce che manifestazione di pensiero é anche l’attività che mira a sollecitare una riflessione nei destinatari, anche con immagini di fantasia, che inducono ad aprire un dibattito su un particolare tema. La sua limitazione è eccezionale, solo qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali come per esempio in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza. La censura operata dalla giunta milanese, in particolare dall’Assessore Tasca, risulta quindi essere mossa unicamente da furore ideologico, andando a colpire il pensiero  altrui che non corrisponde al diktat del pensiero unico in tema di vita nascente; ciò è quanto sostenuto addirittura esplicitamente da Diana de Marchi, Presidente della commissione pari opportunità del Comune di Milano, nel suo seguente post su Facebook: “Pro Vita questa città ti consiglia di smetterla, i tuoi manifesti vengono sempre rimossi”. Alla faccia delle pari opportunità! Alla faccia della libertà e della Costituzione! Il Pd Milanese ha sputato ancora una volta su tutto questo. Per aver espresso in questi giorni il mio pensiero mi hanno chiamato “fascista maschilista”, “retrograda medievale”. Era già successo in passato quando mi dissero che avrebbero dovuto rinchiudermi nella mia chiesa e non farmi più uscire. D’altronde loro sono democratici a senso unico.

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