Nome dell'autore: Otello Ruggeri

Informatico di professione, giornalista per svago, politico per passione, Patriota, fiero di essere Milanese.

La storia della ligera, attraverso la vita di Luciano Lutring

Dopo che qualche anno fa si è spento Luciano Lutring “il solista del mitra“, uno dei più noti esponenti della “ligera“, non è rimasto che il ricordo della mala che imperversò nella Milano del dopoguerra fino a metà degli anni “70”. Un mondo popolato di personaggi “romantici”, che quasi mai lasciavano vittime sul loro percorso, che tanto stride con la violenza dei criminali che calpestano le strade della nostra città oggi. Luciano Lutring era nato nel 1937, i genitori volevano fare di lui un musicista – in un certo senso lo diventerà – ma lui fin da giovane fu attratto dalla vita dei bassifondi milanesi, popolata da ladri, truffatori, rapinatori, piccoli estorsori e soprattutto “papponi“,  che amava frequentare perché gli permettevano di soddisfare il suo grande amore per le donne. Anni trascorsi nelle osterie ad ascoltare canzoni come “Porta Romana Bella” e “Ma mi” che della “ligera” erano considerati gli inni, in compagnia di altri futuri criminali come Francis Turatello e Renato Vallanzasca che un giorno ne sarebbero diventati i più pericolosi esponenti. Personaggi dalla vita avventurosa come Ugo Ciappina, ex partigiano gappista passato dal fare l’ascensorista in un albergo di lusso a essere fondatore della “Banda Dovunque“. Un’eterogenea compagine di rapinatori composta anche dal veterano Joe Zanotti, l’ex emigrante in Francia Giuseppe Seno, l’ex fascista Alfredo Torta e l’amico di Ugo Ciappina, ex studente di filosofia e partigiano, Ettore Bogni. La banda compì diverse rapine prima di essere sgominata dalla polizia. Dopo la loro cattura si scopri che parte dei proventi dei colpi fu data a un fantomatico rivoluzionario comunista armeno, Calust Megherian, il quale aveva promesso di donarli al PCI. Ovviamente il partito di Togliatti non aveva ricevuto nulla. Ci fu chi pensò si fosse trattato di un complotto per screditare il PCI, ma in realtà i cinque erano stati solo vittime di qualche astuto truffatore che frequentava il loro stesso ambiente. Ciappina non riuscì mai a cambiare vita, uscì dal carcere nel 1955, nel 1958 fu nuovamente arrestato per avere partecipato alla “rapina di via Osoppo”, crimine per cui rimase in cella fino al 1974 per poi essere a vario titolo coinvolto in altre inchieste su episodi dello stesso genere dal 1981 al 2004. Lutring invece non voleva essere coinvolto in fatti che potevano avere risvolti sanguinosi, a lui piaceva la bella vita, le auto di lusso, le incursioni nei grandi hotel in Francia in compagnia di belle donne e per ottenerli gli bastavano i soldi che racimolava con qualche truffa e occasionale spaccata. Lui alle rapine a mano armata preferiva le serate trascorse bevendo “Barbera e Champagne” e ascoltando le canzoni della mala di Ornella Vanoni. In quelle nebbiose notti milanesi con lui c’erano anche altri piccoli criminali i cui nomi sono rimasti solo nella memoria dei vecchi cronisti, Luciano de Maria, Arnaldo Gesmundo, Enrico Cesaroni, Bruno Brancher, Carlo Bollina detto il “paesanino“, Luigi Rossetti detto “Gino lo zoppo“, Sandro Bezzi… e un altro personaggio sul quale spendere qualche parola in più Ezio Barbieri, il boss dell’Isola Garibaldi. Barbieri era nato nel “22” in via Borsieri, proprio al centro del malfamato quartiere dell’Isola, dove la ligera era profondamente radicata fin dagli inizi del “900”. Era destino che entrasse a farne parte dopo aver trascorso l’infanzia fra il Bar Girardengo e il Bar dell’Aquila dove personaggi con soprannomi come “il Generale”, “il Pascià”, “il Profeta”  trascorrevano le giornate giocando a carte e pensando al prossimo colpo. Gente che non alzava mai la voce, non si faceva notare, che nessuno si sognava di chiamare “banditi”, perché per il popolo i criminali erano altri. Alcuni erano stati in America e vi erano tornati diventando dei miti grazie alle storie di gangster che avevano portate con sé, sicuramente erano in buona parte inventate, ma il piccolo Ezio ascoltandole aveva sognato di essere uno di loro. La sua carriera criminale iniziò nella Milano del primo dopoguerra dove, fra le macerie dei bombardamenti, le mense dei poveri, la borsa nera e un futuro incerto per molti, cominciavano ad aggirarsi le prime belle auto dei nuovi ricchi. Polizia e Carabinieri erano ancora lontani dal riorganizzarsi, e non erano ancora in grado di amministrare a dovere ordine e giustizia. Insieme al suo amico Sandro Bezzi fondò la “Banda dell’Aprilia Nera“, che prese nome dalla Lancia Aprilia nera targata 777 (come il centralino della Questura, il nostro 112) con cui si prese a lungo beffa della polizia. L’Isola era la sua base, il resto della città il suo terreno di caccia. Lui e i suoi compagni formavano posti di blocco improvvisati per imporre un dazio ai più abbienti, rapinavano banche, realizzavano scorrerie aventi come bersaglio i corrieri della borsa nera o gli  industriali che si arricchivano con essa… ma non usarono mai le armi che spesso tenevano in pugno. Nel quartiere sapevano tutti chi erano i “banditi” ma nessuno li denunciò mai. Al  termine della scorreria “quelli dell’Aprilia” si trovavano al bar di via Borsieri 24, e dopo avere diviso fra di loro quanto gli occorreva distribuivano il resto a tutti i bisognosi della zona. La carriera del bandito con il pizzetto alla bersagliera che tutti salutavano nel quartiere perché faceva del bene alla povera gente, si concluse il 26 febbraio 1946. Dopo tante spettacolari inseguimenti in auto e tante rocambolesche fughe per i ravvicinati tetti delle case dell’Isola, alla fine la polizia una sera lo raggiunse. Un testimone raccontò così la sua cattura: “…quando hanno sparato al Barbieri, lui veniva di volata da via Sebenico, con la macchina ha attraversato la piazza Minniti inseguito dalla polizia che gli ha sparato sull’angolo di via Porro Lambertenghi. Barbieri riuscì a scappare lasciando macchie di sangue sul selciato. La gente che lo vedeva fuggire gli batteva le mani!”. Quella sera a morire fu il suo amico Sandro Bezzi mentre lui fu catturato qualche ora dopo ed ebbe fine la storia del Robin Hood dell’Isola. Venticinque anni dopo, nel 1971 fu scarcerato (una pena impensabile da scontarsi al giorno d’oggi per chi non ha ucciso nessuno) e gli

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La crisi di Governo vista dai politici milanesi

Quanto sta accadendo a Roma agita ovviamente le acque anche a Milano. Vediamo come stanno commentando la crisi di Governo alcuni dei principali esponenti politici Milanesi. Giulio Gallera, Assessore al Welfare di Regione Lombardia nel commentare sui social la crisi politica in corso ha esordito con un “che schifo!” aggiungendo “Stiamo assistendo al peggior teatrino della Politica” che, secondo l’esponente forzista, allontana gli italiani dai partiti e li spinge verso il “voto di protesta”. Critico con i 5 Stelle che avevano detto “non avrebbero mai accettato un governo tecnico, che non avrebbero mai fatto un governo con il PD“, lo è anche con Renzi che “pur di andare contro Zingaretti sta teorizzando l’opportunità di un governo salvaconti con i 5 stelle“. L’azzurro non risparmia nemmeno una stoccata al suo partito, Forza Italia, dove “qualcuno sta proponendo di votare la mozione di sfiducia a Conte solo a condizione di avere la garanzia di andare alle elezioni con Salvini”  con il solo scopo di “salvare qualche poltrona nonostante il drammatico calo di consensi“. Dopo avere pesantemente criticato “il Ministro pentastello Giulia Grillo” per i problemi creati alla sanità lombarda. Gallera conclude auspicando che il governo gialloverde “vada a casa” e si torni “velocemente a votare“. L’ex Assessore al Welfare del Comune di Milano, oggi Europarlamentare del PD, Pierfrancesco Majorino, non si è certo risparmiato nel commentare sui social quanto sta accadendo. L’8 agosto, appena avuto il sentore della crisi in atto l’esponente di sinistra aveva scritto che, pur trovandosi di fronte al “governo che ho più disprezzato da quando faccio politica“, non riusciva a “gioire” per via della situazione economica italiana e dell’avanzata della Lega, auspicando che il PD affrontasse “questo passaggio mostrando grande compattezza“. Un concetto ribadito il 12 agosto con un perentorio “Le scissioni non sono mai una buona strada. Mai“. Fra le due date Majorino ha avuto il suo bel da fare fra proporre una strategia “costruiamo subito un’alleanza che fa perno sul PD“, “selezioniamo pochi punti chiari e netti” e “Individuiamo un candidato premier” (9 agosto) e il cercare di scongiurare inciuci con il M5S trovando “sorprendente“, “emblematico”, e “surreale“, il fatto che un po’ di elettori di sinistra, “chiedano al PD di aprire il dialogo coi 5 Stelle“, pur lasciando aperto uno spiraglio nel caso i 5 Stelle producessero  “atti nuovi, cambino leader, scelte di fondo, aprano una fase diversa“, ma non “finché trattano il PD (e i suoi anni di governo) come la peste“. Pensiero coerente, ma in continua evoluzione quello di Majorino, che dopo diversi richiami al rispetto della Costituzione e delle decisioni del Presidente Mattarella, passa da un “È del tutto evidente che il surreale schema di questi anni sui 5stelle e Lega, che in fondo pari sono, è stato superato, in queste ore, da tutto il PD. Altrimenti non si spiegherebbe l’ipotesi di fare coi grillini un governo assieme”, a un quasi rassegnato all’alleanza con i 5 Stelle “Qualsiasi scenario – elezioni o governo coi 5stelle o come lo volete chiamare perché non si può dire – ha bisogno di un PD unito e forte“. L’Europarlamentare e Consigliere Comunale della Lega Silvia Sardone, ha invece scaricato gli ex alleati l’8 agosto “Voltiamo pagina, non è più possibile continuare con alleati che insultano, dicono solo no e frenano le riforme”, mentre il 9 ha scritto “mi fido di Matteo Salvini” chiedendo “elezioni” così che gli italiani possano “dare pieni poteri a Salvini“. Lo stesso giorno, appena si cominciava a profilare un possibile asse 5 stelle – PD, ha sentenziato “Sarebbe incredibile un governo Renzi-Di Maio ma in molti per tenersi la poltrona farebbero di tutto“, per poi lasciare passare un giorno e fare sapere che lei se ne era già accorta: “In Europa ci siamo già resi conto che i grillini votano insieme al Pd“. L’11 agosto, quando l’accordo giallorosso si faceva più probabile, l’ex forzista ha attaccato Renzi che “torna in scena con assurdità e sparate senza senso. Dopo essere stato asfaltato a ogni elezione ora si erge a Salvatore della Patria” e l’accordo con Grillo “Dopo essersi insultati per anni, ora sono pronti a uno scandaloso accordo” raggiunto solo per “paura di votare“. Il 12 agosto se l’è presa con la Boschi, pronta anche lei al “ribaltone” e “all’inciucione” pur di essere candidata, ma ancora convinta che “gli elettori puniranno questo indecente accordo in programma“. Una convinzione che è sembrata vacillare il 13 quando ha denunciato “Stanno cercando in ogni modo di allontanare le elezioni. Hanno paura degli italiani! Hanno paura del democratico voto dei cittadini!” senza però smettere di sostenere con convinzione “Noi vogliamo Salvini Premier“. Rigidi sulla richiesta di elezioni immediate i due parlamentari di Fratelli d’Italia, Marco Osnato e Carlo Fidanza. Entrambi hanno evitato di entrare in conflitto con i possibili futuri alleati, ma anche di emettere giudizi eccessivamente critici nei confronti del M5S e dei partiti di sinistra, preferendo concentrarsi sul promuovere le proposte e idee del loro movimento. Così, mentre il primo si è limitato a pubblicare locandine di eventi in cui alla presenza di Giorgia Meloni si raccoglieranno firme per le “elezioni subito“,  il secondo ha dedicato un po’ più tempo ai social ricordando prima che “Fratelli d’Italia da settimane chiedeva di staccare la spina” al Governo, per poi, appreso delle trattative fra M5S e PD, chiedere di smetterla con i “giochini di palazzo“, per dare la “parola agli italiani“. Concetto, quest’ultimo, più volte ribadito fino al 13 quando ha nuovamente scritto “A noi non interessano accordicchi, notai, garanzie. Siamo forti della nostra coerenza e vogliamo solo che gli italiani si possano scegliere un governo forte e coeso per cinque anni“.  

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Olona, storia di un fiume scomparso

Molti credono che Milano sia una delle poche grandi città sorte lontano da un fiume, mancanza a cui pose rimedio Leonardo ideando e facendo realizzare i navigli. Non è così, il fiume c’era, i celti sulle sue rive edificarono il nucleo di palafitte che nei secoli si trasformò in Milano, ed è ancora lì anche se deviato, sepolto e dimenticato. Si chiama Olona. A segnarne il destino è stato il suo regime tipicamente prealpino che, rendendolo facile alle esondazioni, soprattutto nei periodi di disgelo, ne ha reso incompatibile la presenza all’interno di una grande città. Il suo percorso è stato oggetto delle attenzioni dell’uomo fin dall’antichità: i primi a metterci mano furono i romani che ne deviarono le acque per alimentare il fossato difensivo della città, e da allora sono state così tante le modifiche fatte all’alveo che di quello originale si è in gran parte persa la memoria. I settantuno chilometri che percorre nella pianura padana dalle sorgenti di Fornaci della Riana alla Rasa fin quasi alle porte di Rho sono probabilmente gli stessi di quando fu battezzato “Ol”: “grande” nell’antica lingua dei celti, ma di come, prima del 1500, di lì arrivasse a sfociare nel Lambrose ne sa ben poco. Nel XVI° secolo, mentre venivano scavati i navigli, le acque furono deviate per andare ad alimentare la darsena, cosa che hanno continuato a fare alla luce del sole fino a quando nel corso del XX° è stato progressivamente del tutto interrato. Di quell’antica, ma non definitiva, foce rimane solo lo sbocco del canale sotterraneo visibile ancora oggi all’angolo fra piazzale Cantore e via Codara. Nel 1904, poco prima che iniziassero i lavori di copertura deliberati nel PRG comunale del 1884, il fiume scorreva ancora libero da costrizioni. Entrava a Milano dall’attuale piazzale Lotto, scorreva fino a piazza De Angeli (allora detta La Maddalena), raggiungeva piazzale De Agostini dove passava sotto alla linea ferroviaria che la attraversava (dismessa nel 1931) andando a formare la famosa “Isola di Brera”, si insinuava in quello che allora era lo scalo bestiame ed oggi è il Parco Solari, si immetteva su viale Papiniano e finiva con il versare le sue acque nella Darsena. Nel PRG era prevista la creazione di quella che oggi definiamo la circonvallazione della 90/91: fu in funzione di questo che iniziarono e furono lentamente completati (a metà degli anni “30”) i lavori di canalizzazione dell’Olona lungo i viali Murillo, Ranzoni, Bezzi, Misurata e Troya. Per meglio regimentare le acque ed evitare le rovinose esondazioni che di tanto in tanto bloccavano parte della città, fu deciso di suddividere  il fiume in due tronconi. L’opera fu realizzata grazie da una chiusa posta in viale Misurata all’altezza di via Roncaglia. Cosa che portò l’Olona ad avere due foci: una era quella storica che continuava a raggiungere la darsena grazie a un canale denominato “ramo darsena”, ed una seconda alimentata dalle acque in eccesso, che andava a gettarsi in un canale che nasceva nasce dal Naviglio Grande a San Cristoforo denominato colatore Lambro Meridionale. Purtroppo, il fiume di Milano era destinato a non avere pace. Nel dopoguerra nei dintorni della città iniziarono a sorgere sempre più numerose fabbriche che scaricavano liquami nell’Olona riducendolo ben presto in una maleodorante fogna a cielo aperto. Per ovviare al problema, negli anni 50, sia lungo la circonvallazione sia lungo il ramo darsena, iniziarono i lavori di copertura che, entro il 1970, lo fecero sparire dalle strade e, dopo qualche anno, con la chiusura del ramo darsena, per evitare rischi di inquinamento idrogeologico, le sue acque smisero anche di raggiungere il centro cittadino. Da allora, all’interno della città vede la luce solo all’altezza dell’unica foce, quella che si getta nel Lambro Meridionale all’altezza del ponte della ferrovia in via Malaga. Per diversi anni lo spartitraffico creato dalla copertura in circonvallazione è stato utilizzato semplicemente come parcheggio, e agli incroci si potevano ancora notare i muretti di protezione dei vecchi ponti ormai interrati nel manto stradale: ma con la realizzazione della corsia preferenziale, anche queste piccole tracce sono andate perdute e, ad esclusione delle grate che nascondono le chiuse in viale Misurata, dell’antico corso cittadino non è rimasto più nulla.  

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Alberto Litta Modignani, un eroe milanese da non dimenticare

Questa è una bella storia. Una storia d’altri tempi con protagonista un valoroso cavaliere Milanese: il maggiore Alberto Litta Modignani. Molti direbbero “un uomo come non ne nascono più”, ma nonostante tutto, sono convinto che nella nostra città ce ne sono ancora tanti di milanesi così. La mattina del 24 agosto del 1942 splendeva il sole a Isbuscenskij un paesino formato da quattro casupole in un’ansa del Don ignorato da qualsiasi atlante geografico. Il paesaggio era di un giallo accecante, quello dell’erba seccata dal sole e degli sterminati campi di girasole che vi crescevano, a interrompere la monotonia della steppa sterminata c’erano solo i colori di un accampamento dove durante la notte avevano riposato gli uomini del “Savoia Cavalleria” e del reggimento di artiglieria a cavallo “Voloire”. A portarli li erano stati gli eventi bellici che in quei giorni sconvolgevano il mondo. A metà agosto le forze dell’Asse avevano lanciato una massiccia offensiva sul fronte orientale che le aveva portate fino alle porte di Stalingrado e all’Armata Italiana in Russa – in cui erano inquadrate le forze di cavalleria – era stato affidato il compito di presidiare l’ala sinistra dello schieramento attestandosi nell’area del Don. Il 20 di agosto i russi, nel tentativo di alleggerire la pressione alla quale erano sottoposti, lanciarono una massiccia controffensiva riuscendo a sfondare il fronte nel punto tenuto dalla Seconda Divisione di Fanteria Sforzesca. Nelle vicinanze si trovava il Raggruppamento di truppe a cavallo “Barbò”, che prendeva nome dal suo comandante, il generale Guglielmo Barbò di Casalmorano. A costituirlo erano i Reggimento di Savoia Cavalleria e Lancieri di Novara, e il Reggimento di Artiglieria a Cavallo Voloire. A parte di questi fu affidato il compito di contenere l’avanzata nemica. L’ordine era di spostarsi per occupare quota 213,5 compresa tra i villaggi di Jagodnij e Čebotaresvskij, e di lì prendere sul fianco le truppe sovietiche impedendogli di tagliare le vie di rifornimento all’alleato tedesco impegnato a Stalingrado. Alle prime luci dell’alba, i 700 cavalieri del “Savoia Cavalleria” che avevano bivaccato posti a quadrato sotto la protezione dai cannoni della “Voloire”, si stavano preparando per riprendere la marcia verso quota 213,5. Non sapevano che durante la notte tre battaglioni dell’812º reggimento di fanteria siberiana (812 strelkovyj polk) composto di circa 2.500 soldati al comando di Serafim Petrovič, si erano portati a circa un chilometro dall’accampamento e si erano trincerati in buche fra i girasoli, formando un ampio semi-cerchio, da nord-ovest a nord-est dove attendevano che sorgesse il sole per attaccare le truppe italiane. Gli italiani però non erano degli sprovveduti, mentre il grosso delle truppe smontava il campo, fu mandata una pattuglia a cavallo in avanscoperta. La comandava il sergente Ernesto Comolli cui era stato affidato il compito di controllare un mezzo agricolo carico di fieno che era stato notato la sera precedente. Erano solo le 3:30, i russi non si aspettarono certo di vederli arrivare così presto così una delle sentinelle che era appostata fra i girasoli, non si avvide dei tre che si avvicinavano al piccolo trotto. La notò invece il caporalmaggiore Aristide Bottini che pensando si trattasse di un tedesco lo salutò agitando la mano e gridando “Kamarade!”, quello che ottenne per risposta fu un colpo di fucile che gli sibilò vicino.  Fu l’ultimo colpo che il siberiano sparò in vita sua, il terzo cavaliere, il siciliano Petroso e lo colpì al primo tentativo proprio sotto la stella rossa che aveva mostrato voltandosi. Vistisi scoperti, i russi iniziarono subito un rabbioso fuoco di mortai e mitragliatrici che investì il campo italiano. Nel campo tutto procedeva con ordine quando arrivarono i primi colpi a sconvolgere il lavoro del mattino, vi fu un attimo di sconcerto nel vedersi attaccati in modo così inatteso, ma durò poco, anche se sotto quell’improvvisa pioggia di piombo un reparto avrebbe potuto sfaldarsi al Savoia, non capitò e ognuno rimase al suo posto. Fra i primi a essere colpiti ci furono il Tenente Colonnello Giuseppe Cacciandra, vice comandante del reggimento, preso a una gamba così come il capitano Renzo Aragone ferito a un ginocchio e solo la fortuna volle che, il colonnello comandante Alessandro Bettoni Cazzago fosse solo sfiorato da un proiettile che gli forò il cappotto. In realtà il Colonnello Bettoni fu l’unico a perdere la calma, non per paura però, per una questione d’onore. Noto per i suoi modi cortesi, quella volta si adirò con l’alfiere, il tenente Emanuele Genzardi, rimproverandolo in modo insolitamente rude gli gridò: “Cosa aspetti a scoprire lo stendardo? Non vedi che Savoia combatte?“ Per il Colonnello era inaccettabile che forma e tradizione non fossero state immediatamente rispettate. Quando un reparto di cavalleria combatteva lo stendardo doveva essere scoperto e spiegato al vento perché fosse chiaro a tutti che accettava la battaglia. Era una questione di rispetto per il nemico, per lui non faceva differenza se si trattava di contadini del Don o della cavalleria prussiana. Il tenente Genzardi si affrettò a scioglierlo. Nel frattempo i cannoni del “Voloire” magistralmente comandati dal tenente Giubilario avevano già iniziato a rispondere al fuoco costringendo i sovietici, stupiti dalla pronta reazione, ad arretrare per allontanarsi dalla linea italiana. Al colonnello Bettoni non sfuggì la manovra e intenzionato a cogliere il nemico in movimento, dopo avere accarezzato l’idea di caricare con tutto il Reggimento, cosa da cui si dice lo dissuase il suo aiutante il Maggiore Pietro de Vito Piscicelli di Collesano, ordinò al secondo squadrone comandato dal Capitano Saverio de Leone, di caricare i sovietici su un fianco. Fermiamoci un attimo. Anche se ai giorni nostri può sembrare strano, è bene chiarire che quei 700 cavalieri che stavano per caricare alla sciabola un nemico dotato di armamenti moderni che li soverchiava per numero (quattro a uno), non erano in cerca di una morte romantica e gloriosa, ma avevano la ferma convinzione che la vittoria sarebbe stata loro. I cavalli scalpitavano con i loro cavalieri in sella quando il Capitano de Leone gridò “Caricat!”, i suoi uomini gli risposero in coro “Savoia!” poi tutti insieme si lanciarono verso le postazioni nemiche. Dopo avere

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Ludovico Acerbi. La storia del diavolo in Porta Romana

Quella di Ludovico Acerbi è una vicenda difficile da decifrare, in essa i confini che dividono storia e leggenda diventano evanescenti come le nebbie milanesi al punto di confondere anche i moderni storiografi: l’unica certezza è che il luogo dove vi si svolsero i fatti salienti, Palazzo Acerbi, è ancora lì nello stesso posto dove si trovava nel XVII secolo: corso di Porta Romana al civico tre. Ludovico Acerbi fu per secoli ricordato come “il diavolo di Porta Romana” e, andando a leggere i resoconti storici che lo riguardano, viene da pensare che, sia proprio il diavolo ci metterci lo zampino quando si cerca di ricostruire la sua storia. La pagina di Wikipedia a lui dedicata ne è un esempio lampante. Senza attribuirgli una data di nascita lo dà per morto nel 1522, forse intendendo dire 1622, visto che gli attribuisce la carica di viceré di Napoli nel 1595, di ritorno a Milano nel 1600, magistrato nel 1619 e costruttore di palazzo Acerbi nel 1620, quando doveva essere più che centenario in un epoca in cui l’aspettativa di vita era scesa (soprattutto a causa delle varie epidemie di peste) a trent’anni per il popolo e sessanta per la nobiltà. L’enciclopedia libera conclude poi con il dire che non poteva essere lui il personaggio di cui si narrano le gesta nel 1630 perché era morto cinquant’anni prima (1580 circa… quindi). Se non ci ha messo lo zampino il diavolo a rimescolare i dati forniti, proprio non sapremmo dirvi chi sia stato! Proviamo allora con una fonte più attendibile. Il “dizionario biografico degli italiani illustri” dell’enciclopedia Treccani. Secondo questo testo, Ludovico Acerbi nacque in data imprecisata nella seconda metà del XVI secolo, si laureò in legge (Addottoratosi in utroque iure) per poi iscriversi al collegio dei giureconsulti di Milano. Nel 1595 si recò a Napoli per rimanerci fino al 1598 ricoprendo la carica di reggente di Gran Corte della Vicaria. Tornato a Milano il sette novembre del 1600 fu prima nominato senatore e poi, nel 1619, mentre era in costruzione Palazzo Acerbi, divenne Presidente del Magistrato Ordinario. Morì il ventiquattro aprile del 1622 quando doveva avere fra i cinquanta e i sessant’anni.Dati sicuramente più attendibili e coerenti con i tempi, ma che non servono a risolvere il nostro mistero: se lui era già morto, chi era il Ludovico Acerbi soprannominato “il diavolo di Porta romana” che organizzò sontuose feste a palazzo Acerbi mentre in città infuriava la peste del 1630? Prima di continuare con le stranezze è meglio raccontarvi la storia, o la leggenda… Nel 1630 Milano fu colpita dalla più grave epidemia della sua storia,  la “calamitas calamitatum” che nel giro di pochi mesi più che dimezzò la popolazione della città riducendola da  130.000 a 65.000 unità. In quei giorni, mentre nel Lazzaretto non c’era più posto per ricoverare i malati e spesso i morti venivano lasciati nelle strade per giorni in attesa che i “monatti” passassero a ritirarli per dargli una rapida sepoltura, c’era un luogo dove sembrava che di quanto accadeva fuori non importasse nulla: Palazzo Acerbi per l’appunto! Per tutti i mesi in cui si protrasse la pestilenza, nonostante la città si andasse svuotando le finestre del palazzo restarono sempre illuminate. Il proprietario, al contrario di quanto fatto da molti altri nobili, non aveva nessuna intenzione di andarsene. Anzi, prese l’abitudine di organizzare feste a cui invitava tutta la nobiltà rimasta rendendole sempre più sfarzose mano a mano che l’epidemia diventava più virulenta. Immaginatevi quali pensieri potesse evocare un palazzo dove fervevano i festeggiamenti mentre intorno regnava la morte. La gente di allora non poté che rimanerne impressionata da questo atteggiamento stupendosi ancora più al termine della pestilenza nello scoprire che nessun dei residenti e dei partecipanti alle feste di Palazzo Acerbi fosse colpito o morisse di peste. Così, dalle dicerie dei sopravvissuti, sul Palazzo e il suo proprietario nacque ben presto la leggenda del “diavolo di Porta Romana”… ma chi era costui? Come abbiamo visto per motivi anagrafici non poteva essere lo stesso Ludovico Acerbi di cui abbiamo scritto sopra. Le cronache del tempo non ci sono di molto aiuto, come potete immaginare anche i giornalisti del tempo e la pubblica amministrazione furono duramente colpiti dai lutti che resero meno efficace il loro lavoro. Certo è che al catasto del tempo il palazzo risultava di proprietà di un tale Ludovico Acerbi… che si trattasse di un omonimo? Un anonimo cronista del tempo che abitando in zona ebbe occasione di incontrarlo più volte, lo descrisse così (probabilmente mentre era febbricitante): “Di anni cinquanta in circa con barba quadra et longa, né magro né grasso, né bianco né nero. Comparisce ogni giorno in carrozza superbissimo con sedici staffieri giovani, sbarbati, vestiti di livrea verde dorata et con assai copia di gioie e sei cavalli tirano la sua carrozza”. Da un contadino recatosi a fare dei lavori all’interno del palazzo abbiamo invece questa descrizione di quanto vi accadeva: “…vi erano larve sedute a congresso da un uomo con aspetto di principe ma con la fronte infuocata e occhio fiammeggiante”. Non saranno certo queste informazioni a farci trovare il bandolo della matassa, ma – come sempre accade in questi casi – una spiegazione c’è. A renderla complicata sono il caos che regnò durante la pestilenza, il poco personale a disposizione della pubblica amministrazione negli anni successivi che rende scarsi i documenti disponibili e, perché no, un po’ di pressapochismo da parte degli storici odierni che traendo conclusioni frettolosamente capita prendano fischi per fiaschi. Quello che è passato alla storia come “il diavolo di Porta Romana” era si un nobile di nome Ludovico Acerbi, ma non lo stesso citato da Wikipedia e dalla Treccani, bensì un marchese venuto da fuori! Non si trattava di quel milanese finito a Napoli a fare le veci del governatore, ma di un ferrarese arrivato in città nel 1615 su incarico del governo spagnolo. Un caso di omonimia che – nella confusione del tempo – causò dei comprensibili malintesi. Ludovico Acerbi Marchese di Cisterna, rampollo di una ricchissima

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Quando Milano era bagnata dal lago Gerundo popolato dal drago Tarantasio

Quante volte abbiamo sentito la frase: “Se Milano avesse il mare, sarebbe una piccola…” senza immaginare che un tempo non avrebbe avuto senso dirlo. Infatti, tre millenni fa, quando i celti stabilirono i primi insediamenti al centro della pianura Padana ponendo le basi su cui sarebbe sorta Milano, a pochi chilometri da quell’immaginario perimetro un mare c’era ancora, e vi rimase anche se in forma sempre più ridotta fino al primo medio evo. Era il lago (o mare) Gerundo, dove narra la leggenda abitasse il drago Tarantasio, che ispirò ai Visconti il biscione che è oggi simbolo della nostra città. Si trattava dell’ultimo ricordo palpabile di quando il ritirarsi dei ghiacciai nel Plestiocene aveva innalzato i mari fino che inondarono la pianura fin quasi sotto le Alpi, lasciando al centro della Lombardia un vasto specchio di acque salmastre. L’nvaso aveva un aspetto per lo più paludoso e solo in pochi punti dei suoi duecento chilometri quadrati di estensione raggiungeva i dieci metri d’altezza. Una volta rimasto isolato dal mare, ad alimentarlo rimasero solo piogge ed esondazioni dei fiumi che lo circondavano, così nel giro di qualche secolo l’evaporazione delle acque e le bonifiche dell’alto medio evo ne causarono la scomparsa. Il ricordo del bacino fu tramandato quasi esclusivamente per tradizione orale, anche se ha lasciato qualche consistente, ma per pochi leggibile traccia geologica. Esteso a cavallo fra le province di Milano, Lodi, Bergamo e Cremona, fu citato in alcune cronache di Plinio il Vecchio come “mara Gerundo” (mara in latino significa lago), per poi essere dettagliatamente descritto nel 600 D.C. dallo storico Paolo Diacono e, infine, (quando oramai si stava prosciugando) fu utilizzato come riferimento geografico in alcune carte notarili dell’inizio del XIII secolo. Viste le poche fonti storiche a disposizione, è difficile tracciarne con precisione le rive. Secondo i geologi occupava ampie porzioni del territorio situato fra i fiumi Adda, Serio, Brembo e Oglio e aveva al suo centro un’isola (o penisola) detta Fulcheria. Si presume che durante i periodi di massima estensione a nord lambisse Brembate in provincia di Bergamo, Pizzighettone a sud, Grumello Cremonese a est (entrambe in provincia Cremona) e infine Lodi a ovest. E’ curioso notare (vedere immagine) come anche nei giorni nostri siano molti di più i comuni che si allineano lungo le sue presunte sponde rispetto a quelli che si troverebbero al suo interno. Per chi è appassionato di geologia, o semplicemente curioso al punto da volere approfondire la cosa, magari approfittandone per godere di una giornata all’aria aperta, esistono vari punti dove è facile individuare l’antico alveo del lago. Una vasta zona delimitata da una scarpata ben visibile nei pressi della sponda occidentale dell’Adda, da Cassano a Castiglione oppure dove il suolo declina con suggestive concrezioni nel territorio di Trucazzano, sulla strada provinciale 14 “Rivoltana”, a Formigara e a Chieve. Ai giorni nostri a ricordarlo ci sono  la ghiaia e i quarantacinque centimetri di torba che ricoprono le terre non ancora dissodate dove una volta era il fondale e le tante vie a lui dedicate nei paesi dei dintorni che spesso hanno loro stessi nomi che ne ricordano l’esistenza. Quando Celti prima e romani poi vi si stabilirono sulle rive, il Gerundo doveva già avere più l’aspetto di un’immensa palude alimentata dalle risorgive piuttosto che quello di un lago, tornando a essere tale solo in occasione delle alluvioni che facevano straripare i fiumi circostanti.  Le poche tracce di sé lasciate dai primi sembrano essere fatte apposta per confermarne l’esistenza e la loro capacità di adattarsi a quelle particolari condizioni ambientali: la “città” di palafitte venuta alla luce nei pressi di Soncino, le piroghe scavate da un unico tronco di quercia rinvenute sul fondo di vari acquitrini lombardi, le pietre con infissi grossi anelli di ferro cui probabilmente le ancoravano, su tutte, l’ara dedicata alla dea Mefite, sovrana delle paludi rinvenuta a Genivolta e conservata oggi al museo di Cremona. I romani invece, più abituati agli agi rispetto ai Celti, preferirono girargli alla larga, continuando ad edificare Milano a qualche chilometro e a costruire strade che lo aggiravano tranne una di cui però vi diremo poi. Evitato, e via via dimenticato nei secoli dell’impero romano e nel basso medio evo, del lago si tornò a parlarne con prepotenza intorno al 1200 quando oramai doveva essere ridotto a meno di un terzo della sua originaria estensione. Quello che ne rimaneva era probabilmente una bassa, ma ancora estesa palude malsana e puzzolente in cui la decomposizione di materiali organici generava getti di metano che a contatto con l’ossigeno prendevano fuoco. Un ambiente spettrale da inferno dantesco che, complice la superstizione dei tempi e qualche bambino che vi si smarrì dentro e non fece più ritorno generò la leggenda fosse abitato da un drago. Il drago Tarantasio, di cui vi dicevamo all’inizio! Nessuno ha mai messo in dubbio l’esistenza del lago Gerundo, né storici, né geologi, né chi scrive. Non è un mito che si confonde con la leggenda di cui non esista prova scientifica buono per qualche trasmissione sensazionalistica in tv. Solo un particolare stona in tutta la sua storia, o forse la rende ancora più interessante. Fra Milano e Cremona esiste una strada romana che va dritta come un fuso tagliando nel bel mezzo del lago Gerundo… “So pazzi sti romani!”  

Quando Milano era bagnata dal lago Gerundo popolato dal drago Tarantasio Leggi tutto »