Quando a Milano i migranti erano italiani e vivevano nelle coree
Studiando i fenomeni migratori che nel corso del tempo hanno interessato la nostra città mi sono imbattuto in un termine che non avevo mai sentito pronunciare, nemmeno dai più anziani fra i milanesi che frequento: le “coree” di Milano! Si tratta di uno di quei fenomeni che gli studiosi di tradizioni locali sono soliti nascondono sotto il tappeto della storia. Ebbe inizio intorno al 1951 quando gli immigrati provenienti da tutte le parti d’Italia in cerca di lavoro e di un futuro migliore, dopo avere abbandonato le loro realtà rurali, vennero a insediarsi nei dintorni di Milano. Molti di loro appena arrivati cominciarono a costruire piccoli nuclei di case abusive nelle campagne ai margini delle periferie cittadine, agglomerati che i milanesi cominciarono a chiamare per l’appunto “coree”. Da cosa sia derivata questa denominazione non è dato saperlo, ho letto tutto (quel poco) che mi è stato possibile trovare sull’argomento, ma nessun testo lo chiarisce. All’epoca solo un libro “Milano, Corea, inchiesta sugli immigrati” edito da Feltrinelli – si occupò di approfondire la condizione di quelle persone, ma molti dei contenuti, soprattutto le riflessioni, sono condizionati dal pensiero spiccatamente di sinistra con cui gli autori affrontarono la questione. Scritto da Danilo Montaldi, sociologo e militante dell’estrema sinistra, in collaborazione con Franco Alasia, un operaio metalmeccanico autodidatta di Sesto San Giovanni (per chiarire l’entroterra culturale), il libro si presenta come un’inchiesta sul campo ricca di interviste e scorci di vita reale. Fatta la debita tara ideologica, è sicuramente uno strumento prezioso per capire di cosa stiamo parlando. In esso si racconta di siciliani, calabresi, pugliesi, ciociari, campani, ma pure di genti del sud-est che spesso faticavano a parlare e comprendere l’italiano ed erano in buona parte analfabeti. Paradossalmente la loro condizione abitativa era addirittura peggiore di quella degli immigrati odierni visto che per loro non fu previsto nessun sistema di accoglienza. Quasi tutti arrivavano senza soldi in tasca e, non potendo permettersi un alloggio in affitto, finivano per occupare cascine fatiscenti, abbandonate da chi le aveva abitate o con il costruirsi baracche fatte di mattoni e lamiere prive di allacciamenti alle fogne e all’energia elettrica. Non c’è da sorprendersi se le foto di come nel recente passato abbiamo accolto nostri connazionali a Milano si contino sulle dita di una mano: non c’è nulla di cui andare fieri. C’era anche un motivo pratico nel formarsi di queste comunità: loro malgrado, pur essendo italiani, gli immigrati si trovavano nella condizione di “irregolari” a causa di alcune leggi comunali istituite durante il ventennio fascista. Allora non esisteva una legge nazionale che regolasse flussi migratori dall’estero poiché erano in pratica assenti ma molte regole locali atte a gestire i flussi migratori interni allo Stato. Milano fino al 1961 mantenne in vigore una “norma contro l’urbanesimo” che stabiliva fosse necessario avere un lavoro per ottenere la residenza a Milano ed essere già residenti per essere assunti. Un serpente che si mordeva la coda che solo le cooperative non erano tenute a rispettare. Fu così che grazie all’aiuto di sindacalisti, intellettuali di sinistra, imprenditori interessati alla nuova manodopera disponibile in quasi tutte le “coree” nacquero delle cooperative che permisero agli immigrati di trovare un lavoro grazie al quale riuscirono a inserirsi nel organizzazione sociale milanese. Con il sempre maggior numero di occupati che potevano permettersi di affittare se non una casa almeno un alloggio, e l’abolizione della norma sull’urbanesimo, nel giro di un decennio l’utilità delle “coree” venne a mancare e ben prima della metà degli anni “60” anche l’ultima venne rasa al suolo. Di esse non fu conservato quasi nulla, poche foto, un unico libro che ne parla e chi vi aveva vissuto volle dimenticarsele in fretta quasi quanto chi aveva consentito esistessero.
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