Nome dell'autore: Otello Ruggeri

Informatico di professione, giornalista per svago, politico per passione, Patriota, fiero di essere Milanese.

La memoria di Norma Cossetto coperta con il nastro adesivo

Succede nel Municipio 4 dove doveva essere innaugurato un giardinetto in memoria della giovane martire, ma all’ultimo momento una mano ignota ha coperto con del nastro adesivo il nome di Norma Cossetto, che era già stato stampato da tempo sui cartelli del Comune di Milano posti sul cancello d’ingresso del parchetto. Nonostante alcuni giorni fa sia stato inaugurato lo studentato del Politecnico, che ha realizzato anche il parchetto antistante, per il secondo il taglio del nastro è stato rimandato senza che da Palazzo Marino siano stati forniti chiarimenti in merito ai motivi del rinvio, comunicato al Municipio dallo stesso Politecnico, con una mail in cui si spiegava di avere provveduto a coprire la targa del giardino di via Einstein come indicato dal Comune. A quanto trapelato il problema sarebbe stato causato da un errore nell’iter burocratico seguito dal Municipio per ottenere l’intitolazione, una spiegazione che molti sospettano sia una delle solite scuse utilizzate dalla sinistra per creare problemi quando a essere ricordati sono gli infoibati e gli italiani costretti a fuggire da Istria, Fiume e Dalmazia. Francesco Rocca (FdI), Presidente Commissione Sicurezza e Verde del Municipio 4, raggiunto telefonicamente ci ha riferito che, “Le motivazioni che hanno bloccato l’inaugurazione del giardino dedicato a Norma Cossetto sono formalmente legate a una non corretta procedura“, sottolineando però che “invece la procedura, che è stata rispettata e concordata con gli uffici, è la stessa seguita in un altro Municipio per l’intitolazione di un altro giardino riqualificato dal Politecnico di Milano“. Nonostante tutto l’esponente del partito di Giorgia Meloni si augura che “l’intitolazione del giardino a nome della giovane studentessa universitaria istriana, Medaglia d’Oro al Merito Civile e alla Memoria, torturata, stuprata e gettata in una foiba dai comunisti jugoslavi, non venga ignobilmente ostacolata da intoppi ideologici e burocratici” concludendo “La storia di Norma Cossetto, donna e italiana, non può più essere ignorata“. Una questione che a già superarato i confini della città, grazie all’interessamento di Giorgia Meloni, che l’ha commentata su Facebook definendola, uno “Scandaloso smacco alla memoria di Norma Cossetto“, promettendo “Fratelli d’Italia andrà fino in fondo a questo scempio” per poi concludere con una domanda, “il Comune e la sinistra si vergognano forse di ricordare i martiri delle foibe?“.

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L’urbanistica tattica agita la città

L’urbanistica tattica agita la città. Se da un lato, il Sindaco, l’amministrazione di sinistra e i loro sostenitori gioiscono per l’inaugurazione dell’intervento realizzato in via Venini, dall’altro, opposizione, cittadini e commercianti che sono contrari a queste iniziative, protestano per i disagi e si preoccupano davanti alla prospettiva che presto ne sopravvengano altri a rendere più difficoltoso muoversi e sostare in tutta la città. Una prospettiva per niente remota visto l’annuncio fatto ieri dal Comune dell’avvio di un “avviso pubblico per coinvolgere cittadini e associazioni nella realizzazione dei nuovi interventi” di urbanistica tattica, per un totale di 54 località, che subiranno la stessa sorte di Piazza Dergano, Piazza Angilberto, Via Rovereto, Porta Genova… dando probabilmente il colpo di grazia definitivo alla circolazione in città. Alessandro De Chirico, Consigliere Comunale di Forza Italia, che in mattinata aveva definito l’intervento di via Venini degno di “Bogotà”, realizzato “nonostante le proteste di un intero quartiere“, appreso del bando è nuovamente intervenuto rincarando la dose. Secondo l’azzurro infatti “la divulgazione del bando pubblico per la realizzazione di Piazze Aperte” è il frutto del “delirio di chi non fa altro che gettare fumo negli occhi ai milanesi“. L’azzurro sottolinea il passaggio in cui l’Amministrazione Comunale s’impegna a valutare “le proposte, che potranno contenere obiettivi e suggerimenti per rendere le piazze più vivibili, verdi e decorose, e dovranno dimostrare di offrire supporto sul territorio per poi procedere alla fase di co-progettazione, cui seguirà la firma di un patto di collaborazione”, definendolo risibile visto che secondo lui la Giunta Sala spererà “come al solito nella complicità di gruppi di cittadini politicizzati che useranno come alibi per non ascoltare i molti di più che saranno contrari”. A testimoniare i disagi che questo genere di interventi realizzati senza studiare i flussi del traffico per motivi meramente ideologici in mattinata c’era stato anche un post di Salvatore Basile, animatore del comitato che si batte contro l’intervento di urbanistica tattica realizzato in via Rovereto, per discutere del quale ha organizzato un incontro pubblico alcune settimane fa: “Qualcuno continua a non capire il disagio che provocano in via Rovereto ogni santo giorno, – spiega Basile su Facebook, allegando le foto che o testimoniano – non solo il venerdì, però abbiamo quattro foglie di basilico e due bancali,un paio di striscie colorate per terra, chiedo a chi si erge a pseudo ecologista tutto questo inquina di più o di meno, il nostro caro assessore Marco Granelli ha detto in politichese che non gli interessa di tutto quello che subiamo anche proponendogli di piantumare i marciapiedi (e li avrebbe un senso) e di riportare la viabilità come era, caro assessore il 2021 – conclude Basile – è molto vicino, continua così andrai lontano senza i voti di Rovereto vie limitrofe e da oggi anche Spoleto Popoli Uniti e commercianti di Venini, politiche fascistoidi di gente travestiti da comunisti“. Quello che però dovrebbe preoccupare di più tutti quelli che sperano nella provvisorietà di questi interventi è quanto scritto nel post sulla pagina Facebook del Comune di Milano: “Dergano e Angilberto II diventano più verdi con tanti nuovi alberi: per queste due piazze è pronto il progetto definitivo che renderà permanente il restyling avviato un anno fa“. Come al solito, quando non piace, nulla è più definitivo del provvisorio, soprattutto se si definisce “tattico” ciò che in realtà è “strategico”, che poi per molti si tratti di “strategia del degrado” evidentemente a Palazzo Marino non interessa.    

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La storia della ligera. Quarta parte

L’arresto di Lutring fece molto scalpore sia in Francia che in Italia. Nonostante l’incredibile numero di rapine commesse non avesse lasciato dietro di sé né morti né feriti, di frequente era ricordato con simpatia dalle sue vittime. Insomma, era diventato un personaggio abbastanza popolare fra la gente comune come quasi tutti i vecchi esponenti della vecchia ligera. A  renderlo famoso erano stati l’atteggiamento da guascone, le frasi in dialetto che pronunciava sempre quando “lavorava” nel milanese, la fiabesca storia d‘amore con Yvonne che a Milano conoscevano tutti e di cui si parlava in tutta Italia, ma soprattutto il suo comportamento da ladro gentiluomo. Spesso aveva preteso che fossero pagate le pensioni ai presenti prima di portare a termine la rapine, mentre le compiva aveva sempre un occhio d’attenzione per le anziane vecchine, capitava ci scambiasse qualche battuta ricevendone non di rado in cambio delle sonore sgridate, ma anche in questi casi, se le vedeva in difficoltà non se ne andava mai senza infilargli qualche banconota in borsa. Quando la corte francese, dove venne giudicato nel 1965, lo condannò a ventidue anni di detenzione, la prima cosa che fece fu un gesto d’amore: per evitare che sprecasse il resto della vita ad aspettare un carcerato, lasciò libera Yvonne che – come vedremo poi – non smetterà mai d’amare per tutto il resto della vita. Una volta in cella Lutring, lontano da altre tentazioni, si mise prima a studiare e poi a scrivere e dipingere mettendo in mostra una straordinaria vena artistica che gli fu presto riconosciuta da pubblico e critica. La sua storia attirò l’attenzione di molte personalità del tempo – fra cui Sandro Pertini – col quale intraprese fitte corrispondenze e che probabilmente fecero pressioni sulla giustizia francese perché fosse anticipata la sua liberazione. Fu probabilmente in virtù di questo, dell’avere constatato che effettivamente Lutring fosse un uomo diverso e che non aveva mai fatto del male a nessuno, che scaturì il gesto di clemenza che del Presidente della Repubblica Francese Georges Pompidou che lo graziò nel 1976 subito imitato da quello italiano Giovanni Leone. Fu una fortuna per lui essere in galera negli anni in cui l’ascesa della nuova criminalità scalzò i vecchi esponenti della ligera decretando la fine della vecchia mala milanese. Non gli sarebbe piaciuto assistere a quel cambiamento, avrebbe finito con lo scontrarsi con quei delinquenti sanguinari di cui difficilmente avrebbe  avuto ragione. Probabilmente il carcere gli salvò la vita. Tornato in libertà si dedicò alla scrittura e soprattutto, con successo, alla pittura che, gli diede modo di vivere in modo agiato. I suoi quadri sono stati esposti in numerose mostre, collettive e personali, e gli sono valsi molti premi e riconoscimenti in tutta Europa. Pur se assumendo un tenore di vita meno vistoso e più riservato del precedente, il suo aspetto non era cambiato, volto sorridente, baffi, capelli lunghi e aspetto scanzonato lo rendevano affascinante e già nel 1977 iniziò una relazione con la donna che nello stesso anno  gli diede il suo primo figlio, Dora Internicola. Purtroppo Mirko, così lo chiamarono, morì qualche anno dopo, nel 1995 in un tragico incidente dandogli il secondo grande dispiacere della vita dopo l’avere dovuto lasciare Yvonne. Nonostante fosse ancora in vita, più passavano gli anni, più la sua storia si copriva di un alone di leggenda. Su di lui si scrivevano libri e prima ancora che fosse scarcerato erano usciti due film sulla sua vicenda criminale: “Svegliati e uccidi”, nel 1966  interpretato da Robert Hoffmann Lisa Gastoni e Gian Maria Volonté, e “Lo zingaro”, nel 1975, nel quale Lutring è interpretato da Alain Delon. Dopo  la storia con la Intarnicola conobbe Flora D’Amato che sposò nel 1985, i due ebbero due figlie gemelle, Natasha e Katiusha, ma anche questa storia naufragò, si separarono nel 1997. Gli amici più intimi dicevano che non riuscisse ad evitare di confrontare tutte le donne che entravano a fare parte della sua vita con Yvonne e che queste ne uscivano sempre sconfitte cosa che alla lunga logorava i rapporti. Dopo il divorzio continuò nella sua carriera artistica intensificando i rapporti con il pubblico, partecipò a molti incontri pubblici soprattutto con i giovani ai quali amava dire di vivere d’arte e onestà, e non dei suoi stessi errori. Nei primi anni duemila scelse di ritirarsi a vivere in riva al Lago Maggiore nei pressi di Stresa e poco dopo si ammalò di un male che lo avrebbe lentamente portato via. Gli infermieri dell’ospedale dove fu ricoverato negli ultimi mesi di vita, quando oramai necessitava di cure giornaliere, raccontavano che ogni tanto fuggiva per recarsi alla Stazione di Stresa a sedersi su una panchina da dove guardava i treni che arrivavano. Agli amici che a turno andavano a riprenderlo diceva che andava li perché sperava sempre di vedere scendere Yvonne da qualche vagone (lei era morta oramai da anni). Infine, la notte fra il dodici e il tredici maggio 2013 la morte se lo portò via. Con lui se ne andò l’ultimo rappresentante della ligera chiudendo definitivamente la storia di questa mala romantica i cui appartenenti rubavano quasi sempre per necessità, non facevano male a nessuno e se potevano aiutare un povero diavolo non mancavano mai di farlo. Ci piace pensare che Luciano Lutring abbia ricevuto la sua terza grazia, quella con cui il buon Dio gli avrà concesso di entrare in paradiso dove siamo certi ora siede di fianco a Yvonne.  

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Quelli che NoLo la chiamano QuLo

Una delle cifre distintive della Milano di Sala è quella d’essere estremamente provinciale. Pur atteggiandosi a città dall’afflato internazionale, non riesce a fare a meno di manifestare il suo senso d’inferiorità nei confronti delle capitali estere, e degli anglofoni in generale, utilizzando termini inglesi per definire ciò che potrebbe essere tranquillamente declinato in italiano. Il Comune si è dotato di una “food policy” piuttosto che di una “politica alimentare“, promuove manifestazioni come “Milano food city” al posto di “Milano città del cibo“, gestisce “car” e “bike” “sharing“, invece di noleggiare auto e moto in condivisione, pubblica l’elenco delle “week“ invece che degli “eventi settimanali” dove, per fare un esempio fra tanti, la “settimana della moda” diventa la “fashion week“. Si potrebbe andare avanti a lungo con questo elenco di “vorrei ma non posso“, anzi “non sono“, ma prima di concluderlo pare doveroso citare citare “NoLo“, l’acronimo con il quale un gruppo di cittadini, in buona parte sostenitori di Sala, hanno ribattezzato il tratto iniziale di via Padova e vie limitrofe. Probabilmente anche loro vorrebbero vivere a SoHo, ma non possono e hanno pensato bene di crearsene uno in salsa alla pummarola. Nulla di male, ci mancherebbe altro, ma la toponomastica storica offriva loro tante opportunità di scegliere una denominazione italiana, da rendere difficile comprendere il perché della scelta anglofona. Comunque sia ci si impegnano e, bisogna ammettere che, nel loro piccolo qualche miglioramento sono riusciti ad apportarlo alla zona. A questo punto si potrebbe dire: “contenti loro, contenti tutti“, ma non è proprio così perché, ad opporsi alla loro scelta semantica e a quelle in materia di urbanistica e viabilità sono in molti. Lo scontro fra le due fazioni è stato evidenziato da un post pubblicato nella pagina Facebook Via Padova Viva Social District (“distretto sociale” pareva brutto). In esso sono riprodotte le immagini di alcuni volantini attaccati su muri e cestini della zona, in cui si accusavano i “nolers” di avere causato un aumento dei prezzi di immobili e affitti che costringerà molti ad andarsene lasciando il quartiere popolato solo da “fighetti radicalchic“. Ovviamente si è sviluppata un’accesa discussione all’interno della quale gli autori dell’attacchinaggio sono stati individuati negli appartenenti alla “QuLo Social District – Quasi Loreto – Milano“. E chi sarebbero questi? Nient’altro che gli ideatori di una pagina satirica dove sono pubblicate le tavole “del famoso fumettista Zero-Cacare, ispirato e ambientato nella nostra Qulo“, o l’annuncio di improbabili eventi come il “Pugnetta Pride – La sagra della sega“. Un simpatico modo dei “Qulers” di invitare i loro dirimpettai “Nolers” a rimanere con i piedi per terra, perché quando si sogna di vivere a New York, o a Londra, è sempre un brutto risveglio se al mattino si riaprono gli occhi a Peyton Place.  

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La storia della ligera. Terza Parte

Continuiamo la storia della ligera che andava verso l’epilogo nello stesso periodo in cui anche vicenda criminale di Lutring volgeva al termine. A sancirne la fine verso la metà degli anni sessanta fu l’avvento di giovani criminali nati nel primo dopoguerra come, Francis Turatello e Renato Vallanzasca che sentendosi andare strette le regole della malavita vecchio stampo ne stabilirono di nuove dalle quali la violenza non era più esclusa. Violenza della quale le prime vittime furono proprio gli appartenenti alle loro bande che spesso caddero sotto i colpi degli altri a causa della sanguinosa faida dovuta alla rivalità che vi fu fra i due fin dai tempi della giovinezza. Uno scontro a cui sopravvissero e che si stemperò solo quando, dopo l’arresto di entrambi, la prigione li portò a riavvicinarsi fino a diventare amici, al punto che Turatello fu testimone di nozze di Vallanzasca quando in carcere si sposò con Giuliana Brusa. Turatello nacque ad Asiago nel “44” da una ragazza nubile impiegata a Milano tornata temporaneamente al suo paese per partorire lontano dai bombardamenti. La leggenda (che in questo caso potrebbe essere vera) narra che Francis fosse figlio naturale del boss mafioso italo-americano Frank Coppola detto “Frank tre dita” anche se non si è mai saputo in che occasione la madre l’avesse incontrato. Cresciuto nel quartiere di Lambrate, in giovinezza fu un discreto pugile dilettante ma al ring preferì la strada e la malavita dandosi prima ai furti d’auto per poi fare carriera grazie alla sua spiccata personalità. Insieme alla sua banda, costituita per lo più di immigrati catanesi, prese il controllo delle bische clandestine e della prostituzione arrivando a guadagnare decine di milioni di lire al giorno. Nonostante il benessere che gli derivava da queste attività, non disdegnò di partecipare a parecchie rapine e sequestri di persona insieme alla “Banda dei Marsigliesi” di Albert Bergamelli (cui dedicheremo qualche riga più avanti) cosa che lo rese noto anche oltre confine. Durante la sua lunga carriera criminale entrò in contatto, con esponenti di cosa nostra e della camorra e il suo nome fu accostato a molti episodi oscuri di quel periodo della storia italiana, fra cui il rapimento di Aldo Moro e alcune azioni compiute dalla Banda della Magliana. Dopo una lunga latitanza fu arrestato il 2 aprile 1977 in viale Lunigiana a Milano e condannato al carcere duro per una lunga serie di imputazioni Dal carcere provò a mantenere il controllo della sua organizzazione ma non vi riuscì e fu soppiantato dal suo braccio destro Angelo Epaminonda detto “Il Tebano”. Iniziò così il declino che di li a quattro anni portò al suo omicidio nel carcere di massima sicurezza di Badu ‘e Carros in Sardegna, avvenuto per mano di Pasquale Barra detto “’o animale” in modo così modo cruento, da non meritare di essere raccontato in questa storia di mala milanese. Probabilmente alla notizia della sua morte Luciano Lutring avrà scosso la testa, come aveva spesso fatto quando, all’inizio della loro carriera criminale, Turatello e il di poco più giovane Vallanzasca avevano fatto capire di che cosa erano capaci. Renato Vallanzasca, a lungo nemico giurato di Turatello, è nato a Milano nel 1950, anche lui nel quartiere di Lambrate in via Porpora al 172. Non potevano che diventare acerrimi rivali. Sua madre, che aveva un negozio di abbigliamento in piazzale Bottini, fu costretta a dagli il suo cognome perché il padre era già sposato e aveva tre figli. Irrequieto fin da bambino, a otto anni fini già al “Beccaria” per avere cercato di far uscire da una gabbia la tigre di un circo che aveva piantato il tendone proprio nelle vicinanze di casa sua. Episodio che gli costerà l’allontanamento da casa e l’affidamento a sua zia Rosa (in realtà si trattava della prima moglie del padre) che abitava al Giambellino, dalla parte opposta della città dove sarebbe rimasto fino a quindici anni per poi fare ritorno a casa dei genitori. Fu lì, in quella zona di veccia mala milanese che grazie al suo carisma mise insieme la sua prima banda di ragazzini dedita a furti e taccheggi, ma il suo modo di agire fuori dalle regole non piaceva per niente ai vecchi boss della ligera che si affrettarono ad allontanarlo dal loro ambiente  e se non fosse tornato ad abitare a Lambrate probabilmente per lui sarebbe finita anche peggio. Tornato nel suo vecchio quartiere fondò quella che sarebbe diventata famosa come la “Banda della Comasina”, cui gli esponenti di maggiore spicco furono:  Antonio Colia, Rossano Cochis, Vito Pesce, Claudio Gatti, Mario Carluccio (morto in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine in Piazza Vetra a Milano) e Antonio Furiato (morto in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine durante un sopralluogo per una rapina e al casello autostradale di Dalmine). La banda si specializzò in rapine, sequestri di persona – il più famoso dei quali fu quello di cui rimase vittima Emanuela Trapani, figlia sedicenne di un noto imprenditore milanese – traffico di stupefacenti e di armi, prendendo il controllo di interi quartieri milanesi talvolta anche con l’ausilio di posti di blocco messi per controllare i movimenti della polizia. Al contrario della banda di Turatello, quella di Vallanzasca,  pur macchiandosi di efferati delitti, non ha mai avuto contatti rilevanti con il mondo della grossa criminalità organizzata, rimanendo sempre un fenomeno locale milanese. In poco tempo Vallanzasca accumulò ingenti ricchezze e evidenziò l’unico tratto caratteriale che lo rendeva simile a Lutring: l’amore per le donne e la bella vita. Fin quando rimase in libertà non si fece problemi a condurre e ad ostentare un tenore di vita molto sfarzoso fatto di vestiti firmati, orologi d’oro, auto di lusso, e belle donne che probabilmente non gli sarebbero comunque mancate visto che era un uomo dall’aspetto affascinante, che gli valse il soprannome di “il bel René“, nomignolo con il quale lui non amava affatto – al contrario di quello che si potrebbe pensare – essere chiamato. Nel 1972 la sua carriera criminale ebbe un brusco arresto, quando durante una perquisizione effettuata a casa sua

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La storia della ligera. Seconda Parte

Avevamo lasciato (prima parte) Lutring che emozionato come un adolescente si allontanava rapidamente dal luogo dove aveva messo a segno la sua prima impresa criminale. Sapendosi oramai braccato si diede alla latitanza. Fu in quel periodo che si procurò il mitra che teneva nascosto in una custodia di violino recuperata chissà dove, abitudine che gli valse il soprannome de “il solista del mitra” cosa che sicuramente non soddisfò le ambizioni musicali che avevano per lui i suoi genitori. Questo armamentario stonava un po’ con le tradizioni della Ligera, il cui nome secondo alcuni deriva proprio dal definire “leggera” quella criminalità milanese i cui componenti difficilmente si avvalevano dell’uso delle armi. Nonostante questo non tradì mai i principi di non violenza cui lo avevano educato i più anziani, il suo mitra non sparò mai un colpo che non fosse diretto verso il cielo… o verso il soffitto di qualche banca. Fra i personaggi che popolavano le serate dei fumosi bar dell’Ortica, di Lambrate, del Ticinese, del Giambellino… c’erano più “baùscia” che banditi di professione e anche la maggior parte di questi se fossero stati giovani in un periodo diverso dal dopoguerra difficilmente si sarebbero messi a delinquere. Non stupisce che molti di quelli di loro che sono riusciti a superare indenni prima quel periodo e poi il carcere siano diventati cantanti, pittori o poeti, avevano storie da raccontare, la sensibilità per farlo e il ricordo di vecchi amici che non ce l’avevano fatta a ispirarli. Bruno Brancher, non era destinato a diventare famoso per la sua carriera criminale, forse, se si fosse limitato a quella su di lui sarebbero scritte solo barzellette e canzonette da varietà. Era nato al Ticinese, figlio di una ragazza madre, era cresciuto in una città popolata di disperati a cavalo fra la guerra e la ricostruzione e per sbarcare il lunario aveva iniziato con il fare il ladro di biciclette. Non era mai riuscito a fare il salto di qualità perché il Bruno aveva un difetto:: tartagliava! I suoi amici rapinatori  non l’avevano voluto più con loro dopo che in un paio di rapine non era riuscito a dire nulla più di “Ma… ma … mani in… in…a…al….” prima che si sentissero le sirene della “madama” che consigliavano a  lui e i suoi complici a darsi alla fuga. Lui però non si perse d’animo, si mise in proprio e dopo aver trascorso le serate a raccontare di quella volta che – a suo dire – “si era fatto la bicicletta di Fausto Coppi” passava le notti a infrangere vetrine di gioiellerie per arraffare qualche gioiello senza il problema di dovere dire qualche cosa in tutta fretta. A un certo punto le sue “spaccate” lo avevano reso anche abbastanza noto, ma non era destino, non sarebbe mai diventato una grande criminale perché aveva anche un altro difetto: quando si allontanava troppo dai confini della sua amata Porta Cicca si perdeva! Fu così che una notte, non trovando più la strada di casa fu catturato dalla polizia che lo colse mentre si aggirava sperduto in un quartiere non suo poco dopo avere fatto la sua ultima spaccata. Per un proletario come lui il carcere fu duro, al contrario di quello che capitava ai grandi criminali, amici e famiglia potevano mandargli solo pochi quattrini e non aveva certo gli appoggi politici che cominciarono a riempire le carceri a metà degli anni sessanta, così si trovò isolato. A cambiargli la vita fu un pestaggio subito da un gruppo di extraparlamentari che lo fece finire sui giornali. Chissà come la gente rimase impressionata da quel carcerato così indifeso e cominciò a scrivergli chiedendogli della sua storia e lui rispondendo si accorse che gli piaceva farlo e scattò la scintilla che ne fece uno scrittore. Non più prigioniero del doversi esprimere attraverso i suoni scoprì la bellezza delle parole da cui partorì il suo primo capolavoro: “Disamori”. Un libro con il Naviglio al centro, fatto racconti ispirati a eventi e personaggi della sua gioventù, da cui trasuda tutto il suo amore per Porta Cicca. Distribuito dal libraio e storico del Ticinese Primo Moroni, lo fece assurgere alla notorietà come il poeta-protettore dei miserabili di quella zona. Uscito dal carcere, imparò ad ammaestrare la sua voce mettendosi  raccontare le sue storie come facevano i menestrelli di strada un tempo procurandosi il pubblico nell’unico modo che conosceva… lo rubava ad altri. Negli anni “70” era quasi impossibile assistere a una conferenza o una presentazione all’università senza che lui sbucasse dal fondo della sala alzando la mano, e senza che nessuno glie ne desse il permesso salisse sul palco e cominciasse a raccontare le sue ballate. Ben presto fu così noto che i pochi che chiedevano “Ma chi è quello?” si sentivano rispondere “Ma come, non lo conosci? È il poeta uscito di Galera!“. E poi venne il successo quello vero, altri libri, le serate piene di gente che lo ascoltava parlare di carcere e di ligera. Divenne anche un rubacuori inanellando una storia dietro l’altra con le giovani studentesse che puntualmente si innamoravano di lui, ma non cambiò mai stile di vita continuando a frequentare le vecchie osterie e i pub di posta Genova. Arrivarono i premi letterari, le liti Oreste del Buono e Ada Merini e infine di nuovo il carcere per avere accoltellato – non gravemente – una sua giovane fidanzata e poi tentato di uccidersi. Nel 1985 fu ammesso al lavoro esterno al carcere, il Comune gli diede un occupazione e una casa popolare al Corvetto,  poi grazie all’aiuto di un editore che non ha mai voluto fosse fatto il suo nome riprese a scrivere. Bruno trascorse quegli anni percorrendo le via della città che oramai conosceva come le sue tasche e frequentando i giovani (e le giovani) cui era solito dire “Se vuoi scrivere fallo subito. Quando hai la mia età, una giornata di sole, una donna o una birra ti spingono ad andare fuori, non a faticare al tavolino” per poi metterli in guardia dallo sprecare la loro vita seguendo

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