migranti

Scomparso Oss Pinter, il leghista che amava gli ultimi

Scomparso Oss Pinter, il leghista che amava gli ultimi. Lo avevamo conosciuto proprio dove amava stare: in trincea. All’inizio dell’emergenza migranti era stato tra i primissimi a scendere in strada per cercare di dare una mano e un senso al flusso di centinaia di persone in arrivo ogni giorno. Erano le prime settimane, a Milano il prefetto era Francesco Paolo Tronca e con l’aiuto dell’Esercito si era rapidamente sistemato uno spazio nel sottopassaggio vicino alla Centrale. Fino a quel momento migranti e volontari vivevano sui gradini della stazione e Gianluca Oss Pinter era fiero di aver ottenuto i primi interventi della politica: “Majorino si è mosso subito – diceva Oss Pinter – dopo che l’ho guardato e gli ho detto che con i migranti sui massetti del Duce ero io a dormire“. Una frase che secondo lui aveva smosso l’ex assessore al Welfare comunale. Passo dopo passo il leghista atipico aveva seguito l’evolversi dell’emergenza in situazione strutturale e strutturata: era ormai una colonna di Arca Onlus, una delle principali associazioni milanesi che era rapidamente passata dall’attenzione ai poveri all’attenzione ai migranti. Ma era anche la testimonianza di un modo molto particolare di intendere l’essere impegnato politicamente e socialmente: secondo noi un modo molto meneghino, sicuramente un modo tutto suo che non gli ha mai fatto mancare la stima sia della destra che della sinistra. Oss Pinter in trincea ci stava davvero e così ne conosceva tanti aspetti, compresi i difetti e i pregi. Si impegnava quotidianamente, e con una costanza che è stata di esempio per molti. Aveva assorbito la parte migliore di Milano, quella di chi tutti i giorni lavora in silenzio e a testa bassa per portare a casa risultati, mentre altri si riempono la bocca ma tengono le mani in tasca. Con tutti i suoi pregi e i suoi difetti Oss Pinter mancherà agli ultimi, ma anche a tutta la città.    

Scomparso Oss Pinter, il leghista che amava gli ultimi Leggi tutto »

Quando a Milano i migranti erano italiani e vivevano nelle coree

Studiando i fenomeni migratori che nel corso del tempo hanno interessato la nostra città mi sono imbattuto in un termine che non avevo mai sentito pronunciare, nemmeno dai più anziani fra i milanesi che frequento: le “coree” di Milano! Si tratta di uno di quei fenomeni che gli studiosi di tradizioni locali sono soliti nascondono sotto il tappeto della storia. Ebbe inizio intorno al 1951 quando gli immigrati provenienti da tutte le parti d’Italia in cerca di lavoro e di un futuro migliore, dopo avere abbandonato le loro realtà rurali, vennero a insediarsi nei dintorni di Milano. Molti di loro appena arrivati cominciarono a costruire piccoli nuclei di case abusive nelle campagne ai margini delle periferie cittadine, agglomerati che i milanesi cominciarono a chiamare per l’appunto “coree”. Da cosa sia derivata questa denominazione non è dato saperlo, ho letto tutto (quel poco) che mi è stato possibile trovare sull’argomento, ma nessun testo lo chiarisce.  All’epoca solo un libro “Milano, Corea, inchiesta sugli immigrati” edito da Feltrinelli – si occupò di approfondire la condizione di quelle persone, ma molti dei contenuti, soprattutto le riflessioni, sono condizionati dal pensiero spiccatamente di sinistra con cui gli autori affrontarono la questione. Scritto da Danilo Montaldi, sociologo e militante dell’estrema sinistra, in collaborazione con Franco Alasia, un operaio metalmeccanico autodidatta di Sesto San Giovanni (per chiarire l’entroterra culturale), il libro si presenta come un’inchiesta sul campo ricca di interviste e scorci di vita reale. Fatta la debita tara ideologica, è sicuramente uno strumento prezioso per capire di cosa stiamo parlando. In esso si racconta di siciliani, calabresi, pugliesi, ciociari, campani, ma pure di genti del sud-est che spesso faticavano a parlare e comprendere l’italiano ed erano in buona parte analfabeti. Paradossalmente la loro condizione abitativa era addirittura peggiore di quella degli immigrati odierni visto che per loro non fu previsto nessun sistema di accoglienza. Quasi tutti arrivavano senza soldi in tasca e, non potendo permettersi un alloggio in affitto, finivano per occupare cascine fatiscenti, abbandonate da chi le aveva abitate o con il costruirsi baracche fatte di mattoni e lamiere prive di allacciamenti alle fogne e all’energia elettrica. Non c’è da sorprendersi se le foto di come nel recente passato abbiamo accolto nostri connazionali a Milano si contino sulle dita di una mano: non c’è nulla di cui andare fieri. C’era anche un motivo pratico nel formarsi di queste comunità: loro malgrado, pur essendo italiani, gli immigrati si trovavano nella condizione di “irregolari” a causa di alcune leggi comunali istituite durante il ventennio fascista. Allora non esisteva una legge nazionale che regolasse flussi migratori dall’estero poiché erano in pratica assenti ma molte regole locali atte a gestire i flussi migratori interni allo Stato. Milano fino al 1961 mantenne in vigore una “norma contro l’urbanesimo” che stabiliva fosse necessario avere un lavoro per ottenere la residenza a Milano ed essere già residenti per essere assunti. Un serpente che si mordeva la coda che solo le cooperative non erano tenute a rispettare. Fu così che grazie all’aiuto di sindacalisti, intellettuali di sinistra, imprenditori interessati alla nuova manodopera disponibile in quasi tutte le “coree” nacquero delle cooperative che permisero agli immigrati di trovare un lavoro grazie al quale riuscirono a inserirsi nel organizzazione sociale milanese. Con il sempre maggior numero di occupati che potevano permettersi di affittare se non una casa almeno un alloggio, e l’abolizione della norma sull’urbanesimo, nel giro di un decennio l’utilità delle “coree” venne a mancare e ben prima della metà degli anni “60” anche l’ultima venne rasa al suolo. Di esse non fu conservato quasi nulla, poche foto, un unico libro che ne parla e chi vi aveva vissuto volle dimenticarsele in fretta quasi quanto chi aveva consentito esistessero.  

Quando a Milano i migranti erano italiani e vivevano nelle coree Leggi tutto »

Accoglienza migranti, 11 arresti, guadagni illeciti per milioni di euro, legami con l’ndrangheta

I finanzieri del Comando provinciale di Lodi, su disposizione della Procura di Milano, stanno eseguendonumerose perquisizioni e un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 11 persone accusate di associazione per delinquere, truffa allo Stato e autoriciclaggio nell’ambito dell’inchiesta ‘Fake Onlus’ che vede al centro una presunta gestione economica illecita da parte di alcune onlus che si occupano di accoglienza dei migranti, per presunti profitti illeciti per milioni di euro. Ammonterebbe a circa 7 milioni di euro il presunto profitto illecito incassato da alcune onlus che si occupano dell’accoglienza dei migranti. Il particolare emerge dall’inchiesta, coordinata dai pm di Milano Boccassini e Prisco e condotta dalla Gdf di Lodi, che ha portato ad 11 arresti per associazione per delinquere, truffa ai danni dello Stato e autoriciclaggio. Quattro le onlus coinvolte che avrebbero utilizzato falsi documenti per partecipare ai bandi pubblici per gestire l’accoglienza di centinaia di migranti. Avrebbero utilizzato per “scopi personali” oltre 4,5 milioni di euro dei circa 7,5 milioni ottenuti illecitamente, i rappresentanti legali delle onlus al centro dell’inchiesta dei pm di Milano che ha portato a un’ordinanza cautelare per 11 persone (una in carcere, 5 ai domiciliari e 5 obblighi di dimora). Emerge dalle indagini della Gdf di Lodi su un consorzio di onlus che opera nella gestione dell’emergenza migranti che ha partecipato, tra il 2014 e il 2018, a bandi indetti dalle Prefetture di Lodi, Parma e Pavia. L’indagine nasce dall’analisi delle movimentazioni bancarie sui conti correnti intestati ad un consorzio di società cooperative onlus che opera nella gestione dell’emergenza migranti. L’inchiesta ha permesso di smantellare una presunta associazione a delinquere “dedita alla fraudolenta partecipazione a gare pubbliche indette dalle Prefetture di Lodi, Parma e Pavia per la gestione dei flussi migratori“. In particolare, le onlus indagate “dal 2014 al 2018, a fronte dei bonifici ordinati dai citati Uffici Territoriali del Governo in conseguenza degli appalti aggiudicati, hanno ottenuto illecitamente 7.497.256,26 euro di cui 4.586.981,27 utilizzati per scopi personali dai rappresentanti legali delle medesime Onlus“. Le onlus sarebbero collegate “a noti pluripregiudicati appartenenti alla ‘ndrangheta” e sarebbero state utilizzate per consentire a persone recluse di “accedere ai benefici di legge attraverso l’assunzione presso le predette cooperative“. Le onlus sarebbero state “sfruttate per fare ottenere a persone recluse, attraverso il rilascio di documentazione falsa, la concessione della misura alternativa alla detenzione da parte del magistrato di sorveglianza“. Il legame che esiste tra le onlus al centro dell’indagine e alcuni pregiudicati per ‘ndrangheta è datato nel tempo. “Il soggetto che è stato raggiunto da misura cautelare, ovvero l’indagata principale che è anche la promotrice e organizzatrice dell’associazione per delinquere, nel tempo aveva avuto contatti con pluripregiudicati in occasione dello svolgimento di lavori socialmente utili, intorno al 2002 e al 2003. E di li i contatti si sono mantenuti“. Lo ha spiegato Vincenzo Andreone, comandante provinciale della Gdf di Lodi questa mattina a margine della conferenza stampa sull’indagine ‘Fake Onlus’, coordinata dalla Procura di Milano. “Successivamente – ha aggiunto – abbiamo notato come le onlus indagate siano state utilizzate per permettere ad altri detenuti, segnalati dai pregiudicati, di produrre documentazione atta per farsi rilasciare dal magistrato di sorveglianza misure alternative alla detenzione“. ANSA  

Accoglienza migranti, 11 arresti, guadagni illeciti per milioni di euro, legami con l’ndrangheta Leggi tutto »

Una Pasqua senza stile, magari

Una Pasqua senza stile, magari. Milano a quanto pare si deve rassegnare a non vederla mai. Nella città nota per il fashion, anche se ormai quel settore è tutto a Parigi, sarebbe bello santificare le feste. Sarebbe bello vedere il primo cittadino con un vestito serio, uno sguardo serio, celebrare uno dei tanti simboli religiosi della città. Non solo per la religione in sé, ma per la religione fuori di sé: i simboli non sono per forza professioni di obbedienza a un santone, ma l’adesione a valori comuni. Sono sun-bolè dal greco antico “con volontà”, cioè con un’idea dentro che unisce e fortifica l’anima, prima che il conto in banca. La Pasqua dovrebbe essere un momento in cui si celebrano i valori che ci tengono uniti, invece il buon Sala ha deciso di schierarsi. Male. A dargli una grossa mano il periodico Style di Urbano Cairo che gli ha dedicato una prima pagina con due bambini lievemente “colored”. Ora diciamolo: si poteva fare meglio. Il sindaco sicuramente è contento che Majorino gli lasci lo spazio di “amico dei migranti”, anche perché come “uomo che fa cose” Sala ha fallito: nessun grande progetto dopo Expo è stato portato a casa. E l’onda lunga di tutto ciò su cui siamo (come comunità) passati sopra sta arrivando (sì come l’Inverno, ci sta mettendo tante stagioni ma arriva). Non gli resta che rubare il posto a Majorino per dare un significato alla sua Amministrazione, o almeno provarci: se Majo aveva il coraggio di andare fino in fondo abbracciando anche nelle prime pagine neri, gay, e tutto ciò che la destra odia, Sala prende la ragazzina con tinta nordafricana in compagnia di un ragazzino in secondo piano e non biondo. Una visione rilassante per la borghesia dell’accoglienza “sì ma se sono puliti e non troppo neri”. La stessa per dire che bruciò le speranze del povero Nichi Vendola quando venne a Milano. Voleva abbracciare rom, neri, gay, insomma tutti quelli che elessero Pisapia, ma fece prendere a Giulia Maria Crespi il classico sciopun. E la (ahimè) ancora potentissima donna richiamò all’ordine “l’avvocato Pisapia” che subito piegò ginocchio e giunta agli ordini dei suoi veri capi. La prima pagina di Style segue la stessa identica logica: il sindaco, giustamente identificato con uno seduto al posto giusto, con i due ragazzini né troppo bianchi né troppo neri. E un titolo quasi forte, “Milano città aperta”, con un bel richiamo a un vecchio film utile a far sentire gli anziani più giovani e contestualizzati in un periodo storico di cui non capiscono un piffero (viene da fare una carezza a chi l’ha scritto). Ovviamente si scelgono i ragazzini perché un uomo con lo Style di Sala vuoi che si faccia una foto con un bel gambiano di un metro ottanta per 90 di muscoli e magari una cicatrice? Stonerebbe. E magari sporca il vestito da 3mila euro, oltre a spaventare i vecchietti come Giulia Maria che per migrante intendono il cameriere, il bambino a cui mandare 50 euro al mese o la donna violentata da accogliere a spese dello Stato. Peccato che sui gommoni in transito (eh già Salvini, arrivano ancora nonostante il tuo storytelling) queste categorie siano in minoranza. Ma Style deve avere stile, quello dei vecchi ovviamente. Sala invece no, ha preferito così: una Pasqua con Style. Peccato. Noi dell’Osservatore speriamo ancora nell’altra: una Pasqua senza stile.

Una Pasqua senza stile, magari Leggi tutto »